Alcolista, la recensione del nuovo thriller di Lucas Pavetto

Un giovane cineasta decide di girare nel proprio Paese, ma dopo la centesima porta chiusa sceglie di andare oltreoceano nella speranza di trovare qualcuno che si interessi al progetto e decida di contribuire economicamente alla sua nascita. È una storia che sempre più spesso ci capita di ascoltare o di leggere, ed è quella che ha visto protagonista anche il regista italo-argentino Lucas Pavetto con la sua nuova opera per il grande schermo. Alcolista nasce dalla necessità di descrivere la dipendenza nei suoi risvolti più duri, dalla perdita di lucidità al decadimento del corpo, attraverso una narrazione che è quella propria del cinema di genere. Ad interpretare il protagonista di questa discesa negli inferi verso la perdita della propria identità troviamo lo statunitense Bret Roberts, che già in precedenza aveva collaborato con il film-maker. Daniel anestetizza le ferite del proprio passato (segnato da un tragico avvenimento) scolando alcolici ed in segreto medita una feroce vendetta contro l’uomo che considera colpevole delle proprie disgrazie.

Il regista Lucas Pavetto con Bret Roberts sul set

Anima da b-movie

Chi ha avuto modo di vedere The Perfect Husband (precedente lavoro del regista) non si meraviglierà nel riconoscere nei panni del “vicino di casa” una vecchia conoscenza del cinema di Rob Zombie: il grande Bill Moseley, questa volta in giacca e cravatta e con famiglia al seguito e non sporco e trasandato come l’Otis de La casa del diavolo. A fare da (unico) comic relief compare persino il leggendario Lloyd Kaufman, in un esilarante cameo di qualche secondo. Lucas Pavetto, pur alla guida di un lavoro rigoroso e marcatamente lontano dalla anarchia della Troma, non è certamente estraneo a quel mondo cinematografico e al suo humus culturale. Le origini del cineasta italo-argentino emergono spesso anche in questa sua nuova fatica, ma più che nei miraggi horror sono evidenti nella impostazione da b-movie che muove la narrazione. Alcolista è anche un lavoro di frasi urlate, di dialoghi emotivamente sovraccarichi e di gesti esagerati ed esasperati: il protagonista, alla ricerca di un’ultima bottiglia di alcolici ancora piena, pare un naufrago su di un’isola deserta che si accorge che anche l’ultima scorta di acqua è giunta al termine. Ma quella linearità da opera di serie b è nei fatti tradita da un racconto che spesso scorre con fatica, forse per via di una sceneggiatura dai meccanismi non perfettamente oliati. Quello che resta sono le tante idee messe in scena, valorizzate da un comparto tecnico curato e certamente più simile a quello di una grande produzione e non del piccolo film “artigianale”. 

Una scena di Alcolista

La doppia morale

La regia, nevrotica e febbrile, accompagna le allucinazioni rapsodiche del protagonista in una spirale di ossessioni che sembra doversi concludere nel peggiore dei modi. Ma Alcolista riesce a dare il meglio di sé quando mette in scena la difficoltà di Daniel nel portare a termine il suo piano di vendetta o, parallelamente, quello di compiere il suicidio. Una difficoltà che non è solo psicologica ma anche fisica: Bret Roberts trema, cade, ciondola ed ogni sua azione sembra immensamente più faticosa di quella che è realmente. Elemento di disturbo in questa storia di intenzioni granitiche e sentimenti apparentemente immutabili è la figura ambigua e dissimulatrice della assistente sociale Claire (Gabriella Wright). Ed è audace la scelta di affidare questo compito destabilizzante proprio al personaggio che più di altri dovrebbe rappresentare un punto fermo. Quelli che inizialmente sembrano i tratti caratteristici del protagonista, egoismo e morbosità, pian piano cominciano ad emergere anche nei personaggi “positivi”, a dimostrazione di una complessità assolutamente non banale e scontata in un lavoro dal chiaro intento moralistico (inteso nel significato letterale del termine e non nella sua accezione dispregiativa).