Nella sezione Ufficiale in Concordo del Festival Internazionale del Film di Roma c’è anche “Babycall“, un thriller emozionale norvegese diretto da Pal Slelaune e interpretato da Noomi Rapace e Kristoffer Joner.

Anna scappa con il figlio di otto anni per fuggire dal marito violento che ha provato ad ucciderli. Entrambi si ritrovano a vivere in un grande palazzo grigio e asettico, dove vivono numerose famiglie sullo sfondo di una città cupa, fredda e apatica. Gli assistenti sociali la tengono d’occhio e Anna è vittima di continua ansia e preoccupazione per l’incolumità del figlio, che tiene quasi segregato in casa e sempre in sua compagnia per sentirsi più sicura. Solo un giovane commesso di un negozio di elettronica sembra riuscire ad avvicinarsi alla donna disperata, creando una specie di relazione che rimane comunque in bilico tra amicizia e qualcosa di più fino alla fine. C’è qualcosa che disturba Anna profondamente, fantasmi si aggirano intorno a lei e nella sua casa, e la percezione della realtà si deforma ogni giorno di più, tanto che anche per lo spettatore è difficile capire ciò che sta succedendo realmente nel film.

L’amore ossessivo per il figlio Anders la trascina in un buio mentale senza vie d’uscita e solo l’acquisto di un babycall sembra poterla aiutare a sentirsi un minimo sicura. Ma l’oggetto elettronico invece peggiora la situazione, poiché trasmette urla e pianti di un bambino sconosciuto, forse inquilino di uno degli appartamenti del suo grande complesso abitativo. Saranno allucinazioni o qualcuno ha realmente bisogno di aiuto? “Babycall” vuole essere un thriller misterioso e ricco di suspance, ma purtroppo l’idea buona non viene sviluppata nel giusto modo e la storia si spegne piano piano in un ritmo lento e senza colpi di scena reali. Infatti, ogni scena fa fatica a suscitare curiosità per una soluzione finale della storia e Noomi Rapace, unica principale protagonista, risulta intrappolata nel suo personaggio e non riesce ad esprimere molto di più dello stretto necessario. Slelaune cerca di creare disagio, terrore, ma non ci riesce e tutto rimane estremamente apatico e piatto, ed emerge soltanto l’ idea della donna di un amore disperato e ossessivo, senza dubbio pericoloso. Il finale è prevedibile, anche perché la storia in fondo non ha nulla di nuovo e la macchina da presa non aiuta in nessun modo, muovendosi con movimenti piatti e scolastici, per nulla innovativi. Insomma un horror che non fa paura, un thriller che non crea ansia, un “vorrei ma non posso” del cinema norvegese in questa edizione del Festival di Roma.
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