Barriere, la recensione del film di Denzel Washington

Nella cittadina di Pittsburgh, dove il cielo al di sopra è sempre coperto di nuvole, vive una ex promessa del baseball diventata per esigenza netturbino. Il suo nome è Troy Maxson, padre di famiglia al fianco di sua moglie Rose (Viola Davis), che lo aiuta nell’ educazione dei loro due ragazzi: il giovane Cory, con lo stesso amore per lo sport del papà, e il più grande Lyons, con la passione per la musica ma dalle prospettive lavorative sempre più incerte.

Da questo quadro prende il via Barriere, terza prova da regista di Denzel Washington, che torna anche in veste di attore e produttore. Alla base della storia la ormai celebre pièce teatrale di August Wilson, che gli valse il premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1983. Un adattamento cinematografico a lungo rimandato, perché lo stesso Wilson sosteneva la necessità che il regista fosse un afroamericano.

Bono (Stephen Henderson), Cory (Jovan Adepo) e Troy in una scena di Barriere

Barriere scorre via con la malinconia del blues, e i personaggi sono le diverse linee musicali che compongono la melodia. Ma se ciascun musicista inventa il proprio suono, nella famiglia è necessario trovare il giusto compromesso che possa tenere insieme le singole esuberanze incanalandole in una armonia unica. Il blues, la musica che per eccellenza ha tenuto insieme un popolo e la sua cultura, è anche in questo caso il testimone che segna il passaggio da una generazione a quella successiva: e così la “Hear it Ring! Hear it Ring!” cantata da Troy nelle prime scene la farà propria il suo ragazzo parecchi anni dopo. Ma se il suono di quella musica grazie anche alla improvvisazione e alla sua natura “dal vivo” si è sempre contaminato, riuscendo a sopravvivere ai decenni, il linguaggio della pièce ideata da August Wilson è rimasto invece quello classico e denso del teatro più tradizionale.

E dove ci dovrebbe essere una regia audace a bilanciare la macchinosità di certi dialoghi, essa si riduce invece al solo servizio dei personaggi. Era forse arduo chiedere di più a Denzel Washington, attore navigato di cinema e teatro, che per deformazione professionale è propenso alla valorizzazione degli interpreti e non alla sperimentazione visiva. Nonostante questi “problemi” alla base, che vanno accettati perché intrinseci e forse inevitabili, la storia di Troy e Rose vale ancora le pena di essere raccontata e conosciuta.

Una storia che suona come il blues

Nonostante gli anni sulle sue spalle, infatti, la trama di Barriere nasconde una complessità non sempre ravvisabile nelle sceneggiature contemporanee. La situazione iniziale, che vede il buon padre di famiglia farsi carico della propria moglie e della ferrea educazione dei figli, pian piano si sgretola davanti agli occhi dello spettatore. E pur provando dispiacere per le scelte discutibili intraprese da Troy Maxson, è sempre arduo condannare senza rimorso un uomo che ha involontariamente perso il controllo del proprio destino, lasciandosi vincere dalla frustrazione per una condizione sociale considerata ineluttabile. Per questo, pur dipingendo con struggente tristezza i dolori delle persone che hanno sempre amato Troy e che da lui sono state tradite, dai sogni infranti del giovane Cory alle sofferenze sentimentali di Rose, Barriere pone chi guarda nella scomoda posizione di dover fare i conti con una realtà più complessa delle metafore che mette in gioco.

Wilson gioca sulla simbologia delle parole, a cominciare dal nome del protagonista: quel Maxson che ricorda la linea Mason-Dixon che dal 1820 veniva indicata come quella di separazione fra gli stati schiavisti e quelli liberi. E per questo nella mitologia della narrazione un ruolo di primo piano lo riveste anche il fratello “pazzo” che, come tutti i “fool” della tradizione letteraria americana e inglese partendo dal King Lear di Shakespeare, spesso riesce a leggere la realtà che lo circonda con maggiore lucidità rispetto ai propri comprimari “intelligenti”. I suoi continui rimandi biblici, infatti, si riveleranno ben più di semplici vaneggiamenti, ma veri e propri atti premonitori.

Troy (Denzel Washington) e Rose (Viola Davis)

Una “barriera” che unisce e non divide

I personaggi di Barriere, così come le loro azioni, sono condizionati dalla diversa concezione del tempo e della storia: se Max non vuole che il proprio ragazzo subisca le stesse angherie sofferte da lui a causa del colore della sua pelle, Cory si crede libero di poter intraprendere la strada dello sport perché nato in un mondo che vede ormai libero dalla discriminazione. Ma il padre, con il tentativo di guidare il proprio figlio e la testarda volontà di non credere al cambiamento culturale in atto, non si rende conto di star conducendo il giovane verso lo stesso futuro di delusione da cui voleva proteggerlo.

Pare di trovarsi immersi in un grande dramma da cinema anni ’50, dove a prevalere sono le prove muscolari di attori straordinari al servizio della narrazione. Il simbolo della complessità di questa opera si nasconde proprio in quella “barriera” annunciata dal titolo: se Rose vuole costruire lo steccato attorno alla propria casa non è per “allontanare” o “respingere” i pericoli, ma per “tenere vicini” e “insieme” i propri famigliari. Non è una barriera che divide, ma una barriera che unisce.

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