Biografilm 2015: Samsara Diary, un viaggio in cerca di un padre

Samsara Diary, un documentario intimo ed universale allo stesso tempo sulla relazione padre-figlio e sulla ricerca estrema dello sviluppo spirituale, è una delle preziose sorprese che ci ha riservato il programma 2015 del Biografilm Festival di BolognaRamchandra Pace, giovane filmaker già operatore premiato e riconosciuto per Greenpeace, Al Jazeera, Pupi Avati, ed ora nel team di Michele Santoro, ha messo tutto se stesso nella realizzazione di questo particolarissimo documentario autobiografico, suo primo lungometraggio. Cronaca e riflessione sul suo viaggio alla ricerca del padre, è costruito attraverso un incredibile lavoro di analisi e cucitura di decine di ore di video riprese nell’arco di trent’anni, oltre che su nuovo materiale appositamente girato, impegno non a caso intrapreso mentre l’amatissima compagna Stefania era in attesa del loro primo figlio. È una storia intensa, che vale la pena di raccontare, nell’attesa che il documentario trovi una sua strada distributiva, che davvero merita.

Ramchandra nasce a Roma nel 1978, nel pieno di quel fermento hippy che porta tanti giovani a sperimentare tra mille contraddizioni forme di vita comune, stupefacenti, viaggi verso Oriente alla ricerca di sé. Alessandro, il padre, si è costruito con le proprie mani la casa in cui vive con la mamma di Ram, la prima figura che, come una meteora, prenderà presto una strada differente, rinunciando a vivere il suo ruolo materno e lasciando il bambino con questo babbo davvero particolare. Alessandro si divide tra il lavoro e la comune, coinvolgendo il figlio nel suo viaggio verso la spiritualità hindu ed in uno stile di vita alternativo e affascinante per il ragazzino, fino a quando (dopo l’abbandono da parte della nuova compagna con la piccola Sita, sua seconda figlia) all’improvviso prende la più estrema delle decisioni: partire definitivamente per l’India ed unirsi ai Nath, monaci rinunciatari devoti al culto di Shiva e Kali, per l’Occidente “santoni”, per gli indiani presenze importanti e rispettate, custodi di un’antichissima tradizione.

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Ram ha soltanto sedici anni, e nel suo quotidiano si apre un vuoto tanto grande quanto forte e pregnante era la presenza del padre. A Roma restano soltanto il Duni, sacro fuoco che sempre va custodito, la variopinta comunità di personaggi che ruota intorno alla casa, una nonna affettuosa: lettere e piccoli video lo raggiungono sporadicamente dall’Oriente. Un viaggio in India, realizzato con i primi guadagni, lo riporta infine di fronte al padre dopo due mesi di ricerche in lungo e in largo per il subcontinente: ma il vecchio Alessandro non c’è più, è diventato Krishna Nath, il Baba, un guru, e Ram torna a casa per costruire con le sue forze una vita autonoma, pensando di non vederlo mai più.

Provvederà il governo indiano, diversi anni dopo, a riportare in Italia il padre, con un provvedimento di espulsione a causa dei documenti scaduti. E qui Krishna Nath fa una scelta forte, e non casuale: ritorna proprio a Roma, nella sua grande casa, dove ci sono il figlio e la mamma anziana, una donna ironica e dall’irresistibile disincanto romanesco, per costruire e  fondare il primo tempio italiano di Kali. E dove, se non nel giardino di casa? Con i lunghissimi dreadlock attorcigliati sul capo, l’orecchio forato, la tunica arancione, Baba Pace si aggira per Roma, coinvolgendo con la sua irrefrenabile energia tante persone in questa nuova avventura.  La vita di Ram, già sconvolta dall’assenza del padre, ora è nuovamente scompigliata dal suo ritorno, dal sorgere del tempio, dall’arrivo di frotte di devoti indiani che finalmente trovano il loro guru a due passi dal raccordo anulare… Come gestire questo enorme bagaglio di emozioni, questo risentimento, quando si sta per diventare a propria volta padre? Come uscire da questo confronto temuto e cercato, dai vuoti e dai pieni creati da una figura così forte, così visibile, così estrema? Cosa ha significato la solitudine di Ram, un crudele abbandono o l’estrema prova di libertà lasciata dal padre? Laicità e spiritualità sono davvero così distanti da non potersi riunire armoniosamente nella vita di Ram? Le domande che la visione lascia affiorare sono infinite, e il pubblico le accoglie con coinvolgimento ed immedesimazione.

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Il film ripercorre con ammirevole equilibrio un percorso di vita costellato da enormi contraddizioni, che sembrano riproporre in scala minore il caleidoscopio di apparenti contraddizioni della cultura indiana stessa. La grande qualità di Ramchandra Pace risiede proprio in questa sua istintiva capacità di sintesi, nel sapere trovare il suo personale filo in una storia immensa per quantità di episodi di vita, di personaggi, di materiale girato in chissà quanti formati diversi da uniformare, restaurare, correggere, montare. E anche se Krishna Nath sembra strabordare da ogni inquadratura, il filo è saldamente nella mente e nel cuore del figlio, che racconta innanzitutto il suo percepito, le sue emozioni e reazioni, narrando in realtà se stesso in rapporto a questo uomo così particolare. Il suo approccio è intenso ed autoironico al tempo stesso, con una forte capacità di avvicinarsi all’essenziale, ed al contempo di scegliere episodi e scene che per il ritmo dei dialoghi rendono il film godibile quanto una fiction. La nonna dalle battute ironiche e sferzanti, che però si trasferisce con gioia nella casa comunità insieme al figlio ritrovato, l’anziano e pittoresco Baba Cesare, gli indiani devoti, sono soltanto alcuni dei tanti personaggi particolari che animano di vivacità il documentario.

Ramchandra Pace e Krishna Nath, intervenuti alla proiezione, hanno aggiunto con la loro presenza forza particolare ad un docufilm che già toccava per la sua disarmata sincerità, lasciando trasparire la forza di un legame che appare davvero intenso e amorevole, al di là di qualunque definizione i due protagonisti diano di sé e delle loro vite. Il figlio dimostra con il suo lavoro la capacità di riflettere in maniera creativa e positiva sul proprio risentimento, sul senso di tradimento di quella fiducia immensa che aveva riposto in suo padre, in cerca di un’armonia interiore nel momento in cui si affaccia egli stesso alla paternità, e di un suo spazio autonomo ed individuale rispetto alla figura ingombrante del babbo; il padre intanto, con il suo ritorno e la sua presenza, ripercorre su un altro piano i passi del ciclo della sua esistenza, e con il suo sguardo amorevole e fiero del proprio figlio ci fa pensare non tanto che, come afferma nell’intenso confronto con Ram ripreso dal documentario, Alessandro Pace sia morto e ora ci sia il guru, ma che nel cuore più ampio del guru ci sia ora davvero posto anche per il suo essere padre. E questa storia di un padre e di un figlio apparentemente così lontana dalle tante vicende familiari italiane, proprio per la sua dimensione così estrema si propone come uno specchio universale e prezioso, per indagare le tematiche di relazione tra padri e figli.  Per saperne di più su Krishna Nath e le sue attività: http://www.kalimandir.it/Il blog di Ramchandra Pace: https://rampace.wordpress.com/

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