Ieri è stata presentata a pubblico e critica della 68 edizione della Mostra del Cinema di Venezia l’ultima fatica di Todd Solondz, Dark Horse, interessante black comedy (in questo caso più sad comedy) interpretata da Jordan Gelber, Selma Blair, Mia Farrow e Christopher Walken. Il film, largamente ispirato all’incipit di Tanguy di Etienne Chatillez, racconta la storia di Abe (Jordan Gelber), un trentenne sovrappeso con la sindrome di Peter Pan. Diviso tra un lavoro che odia e una vita familiare statica, Abe cercherà in tutti i modi di riscattare la sua esistenza conoscendo Miranda (Selma Blair), ragazza trentenne in perenne crisi depressiva, vero e proprio alter ego femminile del protagonista. I due cercheranno di far funzionare una ipotetica relazione basata sul niente in modo da supplire al forte senso di inadeguatezza che da sempre li contraddistingue (non a caso si sono conosciuti proprio durante una festa di ballo dove erano gli unici a non danzare), ma i problemi di salute di Miranda spaventeranno il povero Abe, impedendogli per l’ennesima volta di prendere una decisione con la propria testa. Sommerso di giocattoli inutili e costosi e messo sempre a confronto con un fratello bello, intelligente e realizzato (Justin Bartha) Abe conduce la sua vita come un bambino, irritato nei confronti di un padre (Christopher Walken) assente e coccolato da una madre fin troppo presente (Mia Farrow), situazione a dir poco attuale nell’epoca dei cosiddetti “bamboccioni”.

L’ancora di salvataggio del povero protagonista è la segretaria Marie (Donna Murphy), oggetto di sue frequenti allucinazioni nei momenti di panico che rappresenta l’unica persona in grado di ascoltarlo e capirlo veramente, forse a causa anche di un reciproco amore inconscio. Accompagnato da musiche ottimiste e positive, Abe cercherà in tutti i modi di scampare al suo destino di perdente, tentando, purtroppo senza successo, di essere il cavallo vincente su cui avevano tanto puntato i genitori. Dark Horse è sicuramente un film complesso, un’opera scritta e diretta con grande intelligenza che arriva perfettamente al punto per cui è stata creata: far pensare. La caratteristica peculiare dei film di Todd Solondz è proprio quella di lasciare un forte senso di amaro in bocca pur portando lo spettatore a ridere di gusto durante la proiezione, cosa abbastanza insolita ad Hollywood. Con Dark Horse Solondz torna in parte alle origini dei suoi film, in particolare a Welcome to the Dollhouse, vero e proprio capolavoro del cinema indipendente interpretato dall’allora esordiente Heather Matarazzo.

Le analogie tra le due opere sono tantissime, entrambi i protagonisti sono esteticamente brutti e poco desiderabili, con fratelli (nel caso di Abe) e sorelle (nel caso di Dawn) molto più attraenti e realizzati/e di loro ed entrambi sono inadeguati rispetto al canone della società a loro contemporanea. Entrambi cercano di realizzarsi senza successo ed entrambi falliscono. L’unica differenza tra le due opere è però l’approccio registico: se in Welcome to the Dollhouse Solondz ha utilizzato un tipo di ripresa “sporco” e poco luminoso, tipico del cinema indipendente, nell’ultimo Dark Horse il regista si è un pò abbandonato al cinema commerciale con riprese luminose e colori pastellati. Accompagnato da una colonna sonora perfettamente in linea con il film, Dark Horse scorre veloce nell’arco dei suoi 84 minuti, tra scene esilaranti di inadeguatezza del protagonista e visioni surreali, fino ad un tragico e malinconico epilogo. Recitato da un cast perfetto con un Christopher Walken e una Mia Farrow a dir poco eccezionali, Dark Horse vince ma non convince del tutto: molte sono le pecche infatti di questa nuova opera di Solondz, prima tra tutte quella di sembrare solo in parte un suo film. Il vero Todd Solondz è quello di Welcome to the Dollhouse, quel regista arrabbiato nei confronti della società, quel regista anticonformista che ti spiattella la realtà lasciandoti di sasso, quel regista che non utilizza uno stile visivo ampio e luminoso.

Il vero Todd Solondz è quello della intro e della fine di Dark Horse, uniche parti del film in cui si può trovare il suo stile malinconico e riflessivo. In conclusione Dark Horse rappresenta per Solondz un piccolo passo in avanti verso il cinema Hollywoodiano ma anche un grande passo indietro nei confronti del cinema solondziano andando a costituire un piccolo calo qualitativo nella sua filmografia.