Director’s Cut: il ritorno (al passato) di Kate Bush

Kate Bush ritorna forse alla riscossa dopo 6 interminabili anni? Se è questo che vi state chiedendo,la risposta è: non proprio. Già, perché la nostra eroina degli anni ’80, ormai over 50,ha deciso di prendere l’aspettativa dai mille impegni di massaia e di ripresentarsi al grande pubblico con un album che è un remake di brani ripescati da due suoi precedenti lavori: The sensual world (1989) e The red shoes (1993). Insomma Kate ha messo i piedi a terra,non si è ancora alzata dal letto, ma ha voluto rinfrescarci le idee riproponendoci dei pezzi che non sono proprio il fiore all’occhiello della sua fiorente carriera, ma che ha rimodellato e catapultato nell’era digitale avvalendosi della preziosa collaborazione di musicisti del calibro di Steve Gadd.

Nella tracklist di 11 pezzi Kate Bush tenta di accontentare i palati di tutti, forse non dei sui fan più esigenti, e parte con Flower of the mountain con il quale presenta il suo spirito tribale determinato da intrecci di voce e cornamusa. Non facciamo in tempo ad abituarci a questa atmosfera che già ci viene voglia di muovere le spalle e dondolare la testa con il groove di Lily, per poi essere ipnotizzati dai vocoder di Deeper understanding e riprenderci in seguito con una “cassa dritta” sostenuta ritmicamente da mandolini in The red shoes. Una volta scossi Kate ci distende con sonorità più edulcorate e a tratti oniriche come in A woman’s work e Moment of pleasure, facendoci passare per i fraseggi della sei-corde di Sir “Slowhand” Eric Clapton in And so is love e riconsegnarci poi ai ritmi decisamente più sostenuti di Rubberband girl in stile Stones (rivisitato) con tanto di armonica e schitarrate alla Keith Richards.

Cara Kate “chi non muore si RISENTE” e oggi ci hai ricordato chi eri, ma domani facci ascoltare chi sei.