Il Paese Delle Spose Infelici, la recensione

 

 

Presentato in concorso alla sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Il Paese delle Spose Infelici è il primo lungometraggio del regista pugliese Pippo Mezzapesa. Dai toni in parte caldi in parte grigi della fotografia, dovuti alla dualità delle ambientazioni, tra la Puglia più selvaggia ed incontaminata e di contro, quella delle fabbriche nella provincia di Taranto, il film è il risultato di un lungo lavoro nell’ambito cinematografico da parte del regista che, passando attraverso una lunga produzione di cortometraggi (da Lido Azzurro del 2001 fino a l’Altra Metà del 2009) e di documentari (tra cui Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate, vincitore alla Settimana della Critica di Venezia nel 2008) è approdato al cinema con il suo primo lavoro.

La storia, ha tre  protagonisti o meglio, quattro. Da sfondo ai fatti narrati c’è una Puglia che tende ad imporsi come quarto attore, osservando ed interagendo con paesaggi fortemente simbolici e funzionali alle svolgimento della storia. Veleno e Zazà, gli altri due protagonisti, sono due adolescenti, due vite agli esatti antipodi che per una sorta di casualità vengono ad incontrarsi legandosi in una chimica naturale. Veleno, figlio di borghesi, vuole imparare a vivere come i suoi coetanei, vuole “sporcarsi di vita” come giustamente preciserà il regista in conferenza stampa e quale migliore spunto di osservazione se non Zazà? Capo indiscusso di Cimasa, Capodiferro e Natuccio, autentico talento del calcio, insegue il suo futuro, lontano dalla criminalità del fratello, spacciatore da quattro soldi, tentando di appropriarsi di un futuro diverso da quello verso cui, per vocazione familiare sembrerebbe destinato. Veleno e Zazà diventano presto amici e la loro diversità non li allontanerà, al contrario, tenderà a completarli. Nella loro vita entra a un terzo protagonista indiscusso del film, Annalisa, una giovane donna che straziata dalla morte del futuro marito, vive solo in una casa semi abbandonata e selvaggia ai margini del paese. L’incontro non è di certo fortuito visto che i ragazzi assistono attoniti all’ennesimo tentativo di suicidio di lei, ma questo permetterà loro di rimanere affascinati da questa figura e tra i tre ne scaturirà un particolarissimo rapporto, altalenante tra gelosie, tradimenti ed angosce.

Ruota attorno a questo il film, Veleno, Zazà, Annalisa come tutti i ragazzi descritti sono protagonisti indiscussi di questa realtà ricreata nei primi anni ’90, come ci suggeriscono le immagini dei programmi televisivi dell’epoca che accompagnano le famiglie di periferia, questi ragazzi sono degli eroi in miniatura intenti in una battaglia all’ultimo colpo per il proprio futuro. Costantemente messi alla prova dalla vita, si ritrovano in situazioni  che li obbligano a diventare ben presto uomini piuttosto che adolescenti, tentando di salvaguardare almeno quel minimo di giovinezza come ultimo rifugio dagli oneri dell’essere adulti. La città segue quest’evoluzione, questi intrecci di esistenze, rappresentata come una provincia del sud deturpata dalla cieca industrializzazione è attrice anch’essa, abbandonata a se stessa, tra angoli di territorio incontaminato e ciminiere ribollenti. Un luogo di contrasto in cui si svolgono i contrasti dei protagonisti.

Primo approccio registico ad un lungometraggio quindi veramente ben riuscito per Pippo Mezzapesa che ha sperimentato molto, andando a pescare spesso però tra quei paesaggi neorealistici alla Pasolini, presenti in tutto il film. In attesa di vedere come verrà considerato dalla Giuria del Festival di Roma, vi possiamo dire che è un film che non lascia insoddisfatti e che rende un preciso spaccato dell’Italia periferica degli anni ’90. Prodotto dal solito Domenico Procacci tanto affezionato a questo tipo di cinema indipendente, speriamo ottenga una degna distribuzione nei cinema italiani.