Non bastavano le ferali profezie che prevedono la fine del mondo per il 2012, anche Lars von Trier ha voluto dire la sua e, come noto, il suo modo di affrontare qualsiasi tematica risulta sempre piuttosto duro. Mettendo in scena la distruzione della Terra, le ossessioni sulla natura matrigna del regista danese hanno forse trovato l’estrema sublimazione. Ma c’è di più, c’è qualcosa di autobiografico in questo film, ossia la depressione, osservata e rappresentata in ogni sua piega. Justine (Kirsten Dunst) è una sposa bellissima, ma la malinconia sembra velare il suo sguardo nel giorno che dovrebbe essere il più felice della sua vita. Sua sorella Claire (Charlotte Gainsbourg), insieme al marito John (Kiefer Sutherland), le ha organizzato un ricevimento sfarzoso in castello da sogno, ma Justine sembra essere lì solo fisicamente. Nei giorni successivi si palesa il rischio che il pianeta Melancholia entri in collisione con la Terra: von Trier ci mostra come Justine, Claire e John affrontano in maniera diversa il pericolo della fine del mondo.

Una ouverture di musica (Tristano e Isotta di Wagner) ed immagini in slow motion, che sono le ossessioni di Justine sulla fine della Terra, ci mostra in modo estremamente raffinato la fine del film: Melancholia che distrugge la Terra. Dopo questo prologo dall’effetto dirompente, il film si divide in due parti, una dedicata a Justine e all’osservazione della sua depressione, ed una dedicata a Claire e alla sua famiglia. Un’atmosfera romantico-decadente e patinata, che ha dell’inquietante per via dei continui rimandi al suicidio di Ofelia dipinto da Sir John Everett Millais, accompagna la narrazione. Il personaggio della Dunst, che le è valso il premio come miglior attrice allo scorso Festival di Cannes, è ispirato allo stesso regista e alla sua depressione. Justine/Kirsten decide di sposarsi per tornare ad essere normale, ma proprio durante la cerimonia il suo io cede, non trovando alcun senso in quel rito di passaggio. La depressione spinge Justine a non trovare senso in nessuna cosa della vita e a ripiegarsi su se stessa, mentalmente e fisicamente. Quando John, appassionato di astronomia, annuncia che presto il pianeta Melancholia passerà molto vicino alla Terra, Justine sembra desiderare che questo distrugga la Terra. Claire, che invece è una donna normale, circondata dall’affetto dei suoi familiari, ha il terrore di perdere tutto. La parte più interessante e allo stesso tempo scabrosa è la prima, in cui il regista indugia nel mostrare tutte le pieghe della depressione di Justine, mostrando come per lei sia difficile partecipare ad una cena in famiglia e come invece affronti con coraggio la fine del mondo.

Sembra quasi che Justine desideri e si arrenda alla morte e alla distruzione portate da Melancholia, poiché si tratta delle uniche cose capaci di far sentire la caducità della vita e quindi di darle un senso. Ciò non significa che le persone depresse sono le uniche ad   avvicinarsi alla verità, tutto sta nel senso che von Trier attribuisce al “sentire”: lo spettatore deve approcciarsi a questo film “sentendo” alla maniera degli antichi greci, quindi disponendosi al pathos e al dramma. Solo da questo punto di vista si potrà capire come per Justine, quindi per von Trier, la fine della vita sulla Terra rappresenti un lieto fine. Melancholia è perciò un film in cui il sentire supera il guardare le immagini e, nonostante la sensazione di piombo nello stomaco che Lars riesce sempre a provocare, non si può fare a meno di riconoscere con gioia che la sua è davvero arte.

 

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