Nerve, la recensione del thriller sul gioco online che spinge alla morte

Il cinema da diversi anni cerca di inquadrare la società interconnessa del mondo contemporaneo, i riflessi che questa ha sulla psicologia umana ed i suoi risvolti più esasperati. Come sempre le storture e le psicosi che la nuova rivoluzione tecnologica e culturale ha portato con sé, attraverso un utilizzo spesso nevrotico ed eccessivo, formano un enorme mare da cui pescare per registi e sceneggiatori. E pur essendo i generi dell’horror e del thriller quelli che più di altri mettono in scena paure e manie, si faticano a trovare opere in grado di parlare di web e social con la stessa inventiva e lucidità con cui Rec inquadrò ormai dieci anni fa il nuovo giornalismo televisivo (o parallelamente come The Ring si fece analisi dei mutamenti nel campo dell’home video).

A provarci questa volta sono due cineasti americani, Henry Joost e Ariel Schulman, che con Nerve descrivono la diffusione di un pericoloso gioco online che invoglia i propri utenti a mettersi alla prova con sfide sempre più difficili e dalle conseguenze sempre più letali. Quello che spinge i giocatori a rischiare la vita per un gioco è la volontà di essere accettati e amati dai propri “watchers”, ovvero da tutte quelle persone che come voyeur spiano le vite dei concorrenti e decidono se regalare (o meno) loro notorietà e successo. Ma se l’idea di base è potente, specialmente nell’assunto che non c’è nessuno che costringe le persone a giocare ma sono piuttosto gli stessi ragazzi ad aderire consapevolmente alle regole poste dagli anonimi amministratori, lo scopo moralizzatore che emerge dall’operazione spoglia Nerve di tutto ciò che di buono ha da proporre. 

Emma Roberts è Vee in Nerve

Tensione in una New York al neon

Joost e Schulman sono bravi nel gestire le sequenze di tensione ed i momenti di azione, che si svolgono sullo scenario di una New York al neon colorata in un modo che ricorda certo cinema asiatico. Ed è interessante come Nerve inquadra la tecnologia, sia mostrandone le dinamiche social in maniera realistica sia adottando le soluzioni visive proposte negli scorsi anni da serie come Sherlock. Decisamente meno avvincente, però, è la maniera in cui la giudica.

Pur essendo un lavoro immerso nella contemporaneità, sui giovani e con i giovani (i genitori sono relegati a ruoli marginali e volutamente assenti), la morale di Nerve è quella retrograda di chi vede i social come unico male. Il web è veicolo esclusivo di cose negative, e non strumento utile per risolvere magari quelle stesse prove cui sono sottoposti i protagonisti. Persino i personaggi “positivi”, quelli che usano internet a fin di bene, sono in realtà degli hacker che agiscono nella clandestinità e sfruttano quella enorme zona grigia che chiamiamo deep web. 

Una scena di Nerve

Una morale grossolana

È un vero peccato che Nerve decida, specialmente sul finale, di fare il passo più lungo della gamba e giudicare in maniera così banale e grossolana il fenomeno dei social. Questo certo non elimina il bel lavoro fatto sulla fotografia e sulla regia, né quei momenti davvero in grado di tenere con il fiato sospeso, ma in qualche modo ne smorza l’efficacia e rende il lungometraggio più simile ad una puntata poco riuscita di Black Mirror, scevra però del cinismo della serie, che ad un thriller per adolescenti.

Quando sembra andare nella giusta direzione, Nerve si dimentica quali sono i suoi elementi di forza e vira sulla pubblicità progresso, cercando di educare il proprio pubblico giovanile.