Poulet Aux Prunes, la recensione

Una favola malinconica e romantica, raccontata secondo i codici del thriller, è il film presentato in concorso alla 68esima Mostra dell’Arte Cinematografica di Venezia dalla coppia Marjane Satrapi, e Vincent Paronnaud, che, dopo Persepolis, si ritrovano per la prima volta realmente dietro la macchina da presa. Una storia ambientata a Teheran, a metà del secolo scorso. Nasser Ali Khan (Mathieu Amalric) é un violinista di fama mondiale, il cui strumento è andato distrutto.

Non riuscendo a trovare un altro violino all’altezza del proprio, comprende che non può più vivere, e decide di lasciarsi morire. Nell’attesa della sua morte ripercorriamo la sua intera esistenza scoprendo il senso del suo amore per la musica. Un’opera che s’iscrive nel panorama del cinema “fantastico” francese degli ultimi vent’anni, mi riferisco ad esempio al cinema di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, intimamente legato alla narrativa fumettistica sia per stile, che per la scelta di alcune soluzioni visive. Un viaggio nel passato di Nasser Ali, per scoprire un musicista, iraniano, esule, che ha trovato nella musica quello che ha perduto in patria. La Satrapi e Paronnaud scelgono una soluzione narrativa basata sul disvelamento finale ma se la struttura della favola è quella del thriller, il registro narrativo cambia continuamente dal comico al drammatico.

La malinconia che Amalric riesce a restituire al proprio personaggio e perfettamente in equilibrio con il suo lato grottesco. Un film che pecca forse di un approccio formale un po’ naif, già visto, e che in certi momenti può sembrare fine a se stesso. Anche la struttura narrativa, nel suo essere ricercata, penalizza il ritmo del film, ma nonostante ciò si dimostra un’opera con un identità stilistica forte, che riesce a raccontare con tono leggero il dramma della vita di un esule.