Predator compie 30 anni, perché rivederlo oggi

A distanza di trenta lunghi anni dalla sua uscita in sala, ci troviamo oggi a celebrare un pezzo di storia del cinema di azione americano, che è stato in grado di far tesoro delle pietre miliari arrivate prima di lui e di introdurre allo stesso tempo una creatura del tutto nuova ed originale. Predator, il testosteronico lavoro di John McTiernan con Arnold Schwarzeneggerè tra i capisaldi del genere ancorati ad una concezione di action che forse è destinata a non tornare più, quando ancora la durata media di un lungometraggio era quella di 1h 30/1h 45 e non si cedeva alla voglia di misurarsi con trame complesse ed inutilmente intricate. Le ragioni per cui Predator sia rimasto tra i cult più amati ed apprezzati dagli appassionati di “monster movie” sono svariate, ma alcune precise scelte hanno contribuito più di altre a rendere questo horror fantascientifico un successo intramontabile. 

“Venite fuori, maledetti”

Quello che ha reso il capolavoro del 1987 una icona mondiale è la minuziosa cura posta nel costruire una mitologia inedita ed approfondita attorno alle nuove creature, puntando non sulle loro motivazioni (che sono assolutamente arbitrarie) ma sulla tecnologia con la quale queste operano ed uccidono. Dalle abilità di mimetizzazione ed invisibilità alla vista termica, i Predators si mostrano come una razza più evoluta della nostra, arrivando a sconfiggere gli umani sul loro stesso campo di gioco: quello della intelligenza e della tecnica.

Gli alieni si muovono tra l’erba alta come i vietcong, sempre pronti a sorprendere il nemico alle spalle e ad usare il terreno di battaglia come proprio vantaggio. La giungla in Predator è un luogo affascinante e misterioso, pericoloso anche senza la presenza di una minaccia aliena a popolarlo. McTiernan lo inquadra con la stessa rapita fascinazione del Werner Herzog di Fitzcarraldo, richiamando le atmosfere de La foresta di smeraldo di John Boorman. Una location talmente ostica da mettere a dura prova anche la stessa crew cinematografica, spingendo al massimo il limite di sopportazione degli attori e costringendo i tecnici a lavorare in condizioni sempre più precarie. 

“Non ho tempo per sanguinare”

Le cose che ci fanno più paura spesso sono quelle che non riusciamo (o non possiamo) capire. Per questo forse lo Yautja è ancora oggi una delle creature più terrorizzanti ed affascinanti della cinematografia fantascientifica: mossi solo dalla voglia di dominare ed uccidere, portano la morte dove camminano senza farsi troppe domande. Non ci sono arditi piani di conquista aliena, ma solo spietati cacciatori che collezionano teste come fossero trofei. Nessun istinto di sopravvivenza o necessità di procacciarsi cibo, ma vera e propria competizione sportiva. 

Non c’è tempo per sanguinare, così come non ce n’é per soffermarsi troppo sulle incongruenze logiche o sulle mancanze di sceneggiatura. In un tempo in cui la componente più importante di un “action movie” era appunto l’azione, non ci si chiedeva perché alieni tecnologicamente avanzatissimi dovessero combattere corpo a corpo. In Predator quello che avviene in scena é concepito per il solo fine di intrattenere ed appagare lo spettatore, senza preoccuparsi di quelli che oggi verrebbero chiamati dai più integralisti “buchi di sceneggiatura”. È cinema che preferisce mostrare le cose, piuttosto che spiegarle.