Seven Sisters, Noomi Rapace nell’adrenalinico action di Tommy Wirkola

Non c’è forse opera cinematografica degli anni 2000 che può contare un così elevato numero di rivisitazioni e variazioni sul tema come I Figli degli Uomini di Alfonso Cuarón. Solo qualche mese fa è stato presentato a Cannes uno di questi strani cloni, Jupiter’s Moon dell’ungherese Kornél Mundruczó, che sfruttano le tematiche e le ambientazioni del capolavoro del regista messicano per creare una visione distopica del futuro comunque personale e divergente da quella da cui prendono ispirazione. Questo vale anche per Seven Sisters di Tommy Wirkola, action-thriller che a quella idea di futuro senza più nascite unisce quella di una persona che deve convivere con le diverse personalità che la compongono. Ma a differenza dello Split di Shyamalan, questa volta non si parla di un disturbo della personalità che porta alla manifestazione di differenti identità, ma a sette sorelle in carne ed ossa costrette a vivere come se fossero una sola persona.

Da questa idea sicuramente avvincente, Wirkola, che proviene da un cinema distante dalle raffinatezze di Cuarón ma anche dalla sperimentazione di Shyamalan, confeziona un lungometraggio che sa bene come sfruttare il ritmo e l’azione per appassionare, anche se questo vuol dire sacrificare profondità ed originalità sull’altare del puro intrattenimento. Perché è certamente nel suo impianto fantascientifico che Seven Sisters fatica maggiormente e la semplificazione di un futuro nelle mani di un regime para-fascista che controlla ogni cosa con la violenza e la repressione (senza indagare se questo sia effettivamente il metodo migliore per raggiungere i propri scopi) è funzionale a Wirkola per mostrare il suo modo di fare cinema fisico e violento.

Il corpo femminile al servizio dell’azione

Noomi Rapace, dopo la sua convincente prova nel Prometheus di Ridley Scott, si conferma ancora una volta un corpo fenomenale per l’azione, in grado di usare la propria fisicità, che vuol dire potenza muscolare ma anche erotismo, al servizio di ogni collisione e di ogni inseguimento. Ed è certamente questa concezione della femminilità così decisa e senza compromessi ad essere la cosa migliore di Seven Sisters: una visione della donna come protagonista di storie generalmente pensate e costruite attorno a figure maschili, già sdoganata da Charlize Theron in Atomica Bionda ma la cui forza è qui appunto moltiplicata per il numero delle sorelle.

Quello che riesce meno all’attrice statunitense è invece il lavoro sulle sfumature che dovrebbero in qualche modo differenziare le sette protagoniste, che sono praticamente indistinguibili se non fosse per i loro diversi dettagli estetici. Come nel miglior cinema di genere Wirkola sembra appassionarsi alla stessa violenza che inscena, indugiando su immagini che tornano più volte come piccole ossessioni, dalle dita tagliate ai rapidissimi ed inaspettati spari in testa. 

Profondità sacrificata sull’altare del divertimento

All’inconfondibile fisionomia di Willem Dafoe è invece affidato il ruolo di “tutore” delle protagoniste, attraverso pochissimi “flashback”, brevi ma essenziali alla narrazione. Dafoe, proprio come l’Eddie Marsan di Atomica Bionda, è uno di quegli attori capace di essere fondamentale anche quando è in scena per una manciata di minuti, che non si sottrae anche ai ruoli più piccoli nonostante lo status di attore di prima fascia che si è meritatamente conquistato nel corso degli anni.

Così Seven Sisters di Tommy Wirkola fugge via senza mai annoiare, certamente lasciando l’amaro in bocca per quello che concerne i tanti spunti solo vagamente accennati, e farà la gioia di chi mastica un certo tipo di cinema dove non è tanto importante la trama e la verosimiglianza interna alla stessa, quanto il gusto da B movie che c’è in ogni sparatoria ed in ogni combattimento corpo a corpo.