The Hateful Eight, la recensione del nuovo film di Quentin Tarantino

In uscita il prossimo 4 febbraio, The Hateful Eight è il nuovo attesissimo lavoro del genio visionario di Quentin Tarantino che, dopo il primo esperimento di Django Unchained, torna a percorrere i sentieri dello spaghetti western con quello che è forse il suo film più profondo e intimista, basato sulla violenza delle parole, prima che sulla violenza delle armi. Abbandonando gli intrecci de Le iene e di Pulp Fiction, la trama si fa estremamente semplice e essenziale. Un cacciatore di taglie, John Ruth, assieme alla sua preda e al suo “carovaniere”, incontra sul suo cammino due personaggi in cerca di un posto per ripararsi dalla imminente bufera di neve, Warren e Mannix. I quattro trovano rifugio nella Haberdashery di Minnie, locanda di montagna che accoglie i viaggiatori per soste più o meno prolungate. Nella baita i coloriti protagonisti troveranno altri viandanti come loro. Fin da subito si capisce però che qualcuno degli otto personaggi al centro della scena non la racconta giusta, in un clima di tensione e diffidenza destinato a esplodere nella sanguinosa conclusione della pellicola. Per questo la catarsi finale, prevedibile quanto impressionante esplosione di violenza, simile in molti aspetti alla strage finale di Travis in Toro scatenato, rappresenta quello che il filosofo e critico russo Slavoj Žižek chiamerebbe “sfogo”.

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La violenza, infatti, non è mai causata da semplice pazzia, esaurimento, bensì è la naturale conseguenza di una irrimediabile “perdita” e “sottrazione”, dello smarrimento definitivo dei codici essenziali con cui poter capire la realtà che ci circonda. Per rendere il tutto credibile e coinvolgente è necessario però un cast di attori di primo ordine, in grado di rievocare con la loro voce e le loro espressioni tutte le emozioni contrastanti che un lavoro del genere dovrebbe suscitare. Obiettivo raggiunto in pieno, in quanto tutti i protagonisti, dal sadico e astuto Samuel L. Jackson al beffardo e ironico Tim Roth, passando per il cinico Kurt Russell e il taciturno veterano di guerra Bruce Dern, riescono a tirare fuori alcune delle interpretazioni migliori delle loro già memorabili carriere. 

Tarantino riprende i temi de Il grande silenzio del suo maestro e ispiratore Sergio Corbucci, il suo nichilismo e la sua ferocia, ma anche lo stile de La notte senza legge di André De Toth, western americano realizzato con pochi dollari e presto scomparso nel dimenticatoio. Ma il mistero psicologico, il giallo che permea tutta la pellicola, ricorda la mamma del noir e del thriller letterario Agatha Christie, e i suoi Dieci piccoli indiani. Evidente è inoltre il richiamo ad un’altra pellicola che del sospetto e della paranoia ha fatto i suoi punti di forza, il meraviglioso La cosa di John Carpenter. Tarantino cerca di ricreare quella tensione credibile e palpabile che si manifestava tra i protagonisti dell’horror del 1982. Se nel film di Carpenter il motivo della diffidenza tra i personaggi era dato dalla incertezza del “parassita”, il non poter mai sapere chi sarà il prossimo a essere contagiato, in The hateful eight tutti i viaggiatori sono dissimulatori machiavellici con lo scopo di ingannare il proprio vicino. Ma le citazioni alla pellicola sci-fi non finiscono qua. Kurt Russell è infatti il protagonista di entrambi i film, così come Ennio Morricone il compositore delle due colonne sonore. Non solo, ma proprio il maestro italiano sembra aver utilizzato per questo nuovo Tarantino alcuni dei brani precedentemente scartati proprio per il film di John Carpenter.

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Il cineasta americano decide di ambientare questo suo ottavo lavoro in una baita fuori dal tempo, ma immersa in una storia sempre uguale a se stessa, quella degli uomini, delle loro debolezze e delle loro vergognose viltà. La verità effettuale della storia è il conflitto: fra gli stati, fra i gruppi sociali, fra gli individui. Si combatte una lotta senza soste e senza regole, in quanto gli uomini sono caratterizzati da volubilità, ingratitudine, cupidigia e falsità. Natura che può variare nelle forme e nei modi in cui si manifesta, ma è sostanzialmente immutabile. A dimostrazione di come le differenze culturali, il razzismo nella sua forma più intima e filosofica, la diffidenza nei confronti dello straniero e del diverso, sono caratteristiche comuni a tutti gli esseri umani, indipendentemente dal periodo in cui essi vivono. Il contesto storico, in questa nuova pellicola del regista, è evocato esclusivamente dalle parole e dai racconti, dai personaggi, dal loro accento e dal loro vestiario. Tarantino raggiunge la consapevolezza che, secondo la concezione nietzschiana, “ogni pensiero e ogni sospiro dovrà fare ritorno”, che il tempo, non più lineare ma circolare, ci impedisce di lasciare alle spalle il nostro passato. In questa ottica le mille aspirazioni che guidano la nostra vita individuale e collettiva, come per esempio quella che possano finalmente cessare le discriminazioni, sono derise e ridicolizzate, in quanto impossibile fuggire da un tempo destinato nuovamente a ingoiarci. E’ per questo che The hateful eight è forse la pellicola più intimamente politica della filmografia tarantiniana, una spietata riflessione sul sospetto e sulla diffidenza, dove lo straniero è sinonimo di minaccia e pericolo. La piccola e angusta ambientazione richiama la claustrofobicità di “quell’anello dell’essere” che ci stringe e non ci lascia fiato. E allora se, come affermato dal teologo francese Blaise Pascal, “burlarsi della filosofia è veramente filosofare”, allora prendersi gioco della storia, scherzare in maniera ironica e beffarda sulla violenza e sulla paura, significa riflettere concretamente su di esse, per una delle pellicole più belle e profonde del geniale e creativo regista americano.

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