Valerian e la città dei mille pianeti, la recensione del film visionario di Luc Besson

Luc Besson non è certamente un regista che nasconde le proprie intenzioni. Ed è dalla sequenza iniziale di questo Valerian e la città dei mille pianeti, che mostra decine di specie diverse incontrarsi e stringersi la mano sulla colonna sonora di Space Oddity, che si comprende la sua volontà di raccontare una storia di pace e fratellanza fra popoli.

La tanto attesa e rimandata trasposizione per il grande schermo della celebre graphic novel di Pierre Christin e Jean-Claude Mézièrs è stato per decenni il sogno nel cassetto del cineasta francese (che già nel suo celebre Il quinto elemento aveva assorbito alcune delle suggestioni di questa storia). A giudicare dal maestoso impianto visivo che sorregge questa sua nuova opera è chiara l’ostinata volontà di voler far proprio un materiale che mostra pagina dopo pagina una quantità di trovate dalla grande atmosfera. Da astronavi che navigano in condotti fognari ad extraterrestri che catturano esemplari diversi da loro con delle canne da pesca, in quel fumetto apparso per la prima volta nel 1967, c’è un immaginario talmente vasto ed iconico che riuscire a comprimerlo in un lungometraggio (se pur dalla non breve durata) sarebbe stata impresa ardua per chiunque.

I tre alieni Doghan Daguis

Adattare un’opera seminale

Come per John Carter c’è la difficoltà di trasporre sul grande schermo un’opera seminale che nel corso degli anni ha offerto spunti ed idee a gran parte delle produzioni fantascientifiche più famose e che, proprio per questo, oggi può paradossalmente risultare banale e poco originale in quanto spolpata da anni di rivisitazioni e citazioni più o meno velate disseminate in altre saghe sci-fi. A rendere speciale questo racconto di viaggi interdimensionali, di consigli spaziali e di bazar affollati dalle creature più disparate c’è sicuramente la sensibilità del tutto personale di Luc Besson.

Proprio in questo senso sorprendono i due agenti Valerian (Dane DeHaan) e Laureline (Cara Delevingne): ragazzini che godono della propria giovinezza, divertendosi come in un gigantesco parco giochi a prendere in giro gli alieni e a sbuffare alle spalle dei loro superiori. C’è tutta la poetica romantica del cineasta francese nel rapporto tra questi due innamorati che, in attesa di sposarsi, litigano, si punzecchiano e si abbracciano.

Allo stesso tempo a rendere Valerian e la città dei mille pianeti così diverso dalle produzioni americane è quella concezione europea per cui si è disposti a sacrificare il rigore della narrazione in nome di un certo grado di libertà. Non c’è un singolo blockbuster americano a mancare di quella componente matematica che vuole ogni tassello al proprio posto (rigorosa è persino la commedia apparentemente anarchica di James Gunn) e che mai lascerebbe spazio a digressioni marcate come quelle di Besson.

Rihanna in una scena del film

Il blockbuster secondo Besson

C’è il conturbante ballo di Rihanna in un siparietto che nulla aggiunge alla trama (che grida modernità e allo stesso tempo cita Shakespeare) e ci sono momenti dichiaratamente farseschi che sfociano persino nello slapstick. Eppure sono proprio questi “deliri” ad accrescere il fascino di un’opera così densa e satura da rischiare di soverchiare lo spettatore con la sua immensa mole di contenuti ed informazioni.

La chiarezza che c’è nella mente del regista nel decidere cosa raccontare e come farlo non emerge però da una sceneggiatura invece poco equilibrata e dalla risoluzione sbrigativa. Ad una verbosa e didascalica spiegazione conclusiva è affidato il compito di narrare il genocidio del popolo di Mül (che è appunto la parte di trama che sta più a cuore allo stesso regista). Ma al termine della giostra il racconto è così pregno ed esondante che è davvero impossibile, durante questo viaggio in uno spazio mai così vitale, non innamorarsi anche solo di un personaggio, di una creatura o di una ambientazione.