Fin dove un ossessione può spingere un uomo (in questo caso un regista)? Wilde Salome, fuori concorso alla 68esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, viene presentato sin dai titoli di testa come il racconto dell’ossessione di Al Pacino (regista e interprete del film) per l’opera teatrale Salomè di Oscar Wilde. Come per Looking for Richard del 1996, si tratta di un film di ricerca, un esperimento a metà strada tra il documentario, il teatro, l’analisi testuale, il cinema, l’indagine, che si pone l’obbiettivo di scavare a fondo nell’opera di Wilde. Con la collaborazione della sua compagnia teatrale Pacino mette in scena una lettura del Salome da presentare al pubblico.

Filma la preparazione, l’organizzazione dello spettacolo, il montaggio, va alla ricerca dei luoghi in cui Wilde ha vissuto per raccontare l’autore. Ma non si ferma qui: preparando l’opera da mettere in scena come una lettura, quindi con una allestimento scarno ed essenziale, coinvolge gli attori nella preparazione del film, solo poche significative scene dell’opera che stanno rappresentando. Mescola quindi linguaggi e estetiche creando un tessuto visivo eterogeneo e di forte impatto. Il passaggio stesso da un mezzo all’altro, dal digitale al 35mm, si carica di significato e determina contemporaneamente un cambiamento importante nella narrazione. Uno sforzo produttivo e creativo oneroso, che ad un certo punto sfugge dalle mani dell’autore.

Il film su Wilde, su Salome, si contorce su se stesso, diventando il film sulla realizzazione dello spettacolo, sul tentativo di Pacino di dare forma alla propria ossessiva ricerca. La finzione cinematografica prende il sopravvento e si viene catapultati dentro il dramma. Salome ne è la protagonista. Una seducente Jessica Chastein ci trascina in una danza dionisiaca, e superando l’analisi, la ricerca iniziale, il film arriva all’essenza della propria rappresentazione.  Ma il progetto resta incompiuto.