Creed – Nato per Combattere, la recensione in anteprima dello spinoff di Rocky

Dopo alcuni deludenti capitoli e un sequel/remake lodevole se pur non eccezionale, il franchise di Rocky torna in grande stile con il nuovo Creed – Nato per Combattere, in uscita nelle nostre sale il prossimo 16 gennaio. La pellicola, incentrata sulle vicende del figlio del celebre Apollo della serie originale, vede protagonista un eccezionale Michael B. Jordan nei panni di Adonis, giovane pugile intenzionato a costruirsi una propria carriera fuggendo dalla pesante eredità che si porta sulle spalle. La pellicola è diretta da Ryan Coogler, già autore del bello quanto sconosciuto Prossima fermata Fruitvale Station, basato sulla storia vera di un ragazzo di colore ucciso dalla polizia americana, interpretato sempre dal fidato feticcio Jordan. Pur non avendo la maestria registica di Michael Mann, e non riuscendo a ricreare quei meravigliosi virtuosismi visivi apprezzati in Alì, Coogler riesce a confezionare un prodotto estremamente valido sotto tutti i punti di vista, impreziosito da una interpretazione intensa e credibile e da una trama che, pur riprendendo molto dai classici tòpoi del genere, riesce a coinvolgere lo spettatore per tutta la sua durata. Ma a sorprendere davvero è probabilmente ancora una volta Rocky Balboa: imbolsito, stanco e invecchiato, il campione che fu si mostra in questa nuova pellicola in tutte le sue più umane sfaccettature e debolezze. Nonostante il malcelato senso di colpa che lo divora, il celebre pugile accetta di aiutare il giovane protagonista come se fosse innanzitutto un figlio, prima che un allievo.

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Ricoprendo il ruolo che nel primo capitolo spettava a Burgess Meredith, Stallone si rivela al pubblico struccato e incartapecorito, in una delle sue interpretazioni più solide e memorabili, ricordando a tutti noi come dietro la maschera da star delle pellicole di azione si nasconda in realtà un talento recitativo non indifferente. Le rughe nascoste dietro il cappello sono forse la più eclatante manifestazione di un passato che non ha mai risparmiato nulla, di una vita vissuta come un lunghissimo match, “un passo alla volta, un pugno alla volta, un round alla volta”. Coogler dirige questo settimo capitolo del brand con cura e dedizione, non risparmiandosi finezze registiche come interi incontri girati in piano sequenza, ma senza esagerare con una “mano pesante” tipica di cineasti quali Antoine Fuqua, avvicinatosi al mondo della boxe con il recente quanto deludente Southpaw. Ma Creed non gode solo di un ritrovato quanto spiazzante realismo, ma soprattuto di una visione artistica della grigia realtà urbana ispirata e, quindi, di ispirazione. Il regista non ha paura di giocare con il passato della serie, riproponendo i classici allenamenti estenuanti e persino quella ormai celebre colonna sonora che rendeva emozionante ogni singola inquadratura del primo capitolo, in una operazione nostalgia che non ricicla nulla, bensì reinventa con abilità e creatività. Nonostante un quadro complessivo di eccellente qualità il film non è esente da se pur marginali difetti. La controparte femminile, interpretata da Tessa Thompson, giovane musicista condannata alla progressiva perdita del suo udito, viene inspiegabilmente marginalizzata durante tutta la seconda parte della pellicola, dopo aver ampiamente narrato e approfondito la vicenda amorosa che la lega al protagonista.

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A conti fatti, però, questo nuovo Creed non si dimostra solo uno dei film di boxe più belli e interessanti degli ultimi anni, bensì una pellicola che ha la grande potenzialità di diventare un classico con il passare del tempo. Alcune sequenze, come quella in cui Adonis cerca di affrontare virtualmente Balboa imitando le mosse del padre in un video su internet, sono destinate a rimanere impresse per lungo tempo nella memoria dei tanti appassionati. E’ per questo che si arriva alla fine, dopo un estenuante quanto emozionante incontro finale, che si portano sulla pelle le stesse ferite e contusioni che segnano il corpo del protagonista: ogni gancio andato a segno, ogni presa, è la mossa di un giovane lottatore che ha deciso di percorrere la propria strada uscendo dalla ingombrante ombra di un cognome che lo opprime. E’ la dimostrazione che, nonostante siano passati ormai trentanove anni dal primo Rocky, la metafora del vero “successo”, quello raggiungibile solo attraverso il sacrificio e la tenacia, rimane più attuale che mai. Dietro il viso tumefatto del giovane Adonis è sempre possibile scorgere quel sorriso di rivalsa, quella forza che spinge tutti noi, dopo una ennesima caduta, a rialzarci per riuscire finalmente a mettere al tappeto le nostre paure.

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