Festival
Far East Film 2014, un festival che guarda lontano – Conferenza stampa
“Il mio primo incontro con il cinema orientale è stato da bambino quando in tv c’erano solo due canali e ho visto I Sette Samurai di Kurosawa. Lo seguiva tutta la famiglia, commentando il film in dialetto veneto” ha raccontato il giornalista e critico Giorgio Pacinali in apertura della conferenza stampa di presentazione della sedicesima edizione del Far East Film Festival di Udine, per sottolineare che a volte “l’offerta crea la domanda“, come è avvenuto per questo festival dedicato al cinema orientale ormai da molti anni.
Sabrina Baracetti, Direttrice del FEFF, ha poi dichiarato che “lo scorso anno ci eravamo lasciati con una certa amarezza per i tagli subiti e con l’orgoglio di rivendicare una posizione, e oggi la promessa di non mollare resta. Molti partners, marchi regionali e non, hanno voluto far parte del Far East. In questo momento storico e scenario geopolitico si comprende che questo mondo a Est non è più così lontano, ci si deve fare i conti, anche come alternativa possibile e possibilità di crescita, sia economica che culturale“. Oltre ai film in programma, anche quest’anno si svolgerà il workshop Ties That Bind che unisce Asia e Europa, ma saranno anche introdotti interessanti Corsi di Formazione in collaborazione con la Camera di Commercio e GLP, rivolti al mondo dell’impresa per sviluppare legami con l’Estremo Oriente. “Il Far East è diventata una realtà su cui scommettere” ha aggiunto la Baracetti, continuando ad illustrare le linee guida del programma della nuova edizione del festival. Il 25 Aprile nella storica cornice del Teatro Giovanni da Udine, cuore della manifestazione, avrà inizio il FEFF 16 con il film di apertura Aberdeen, che segna il grande ritorno di Pang Ho-cheung. Si tratta di un dramma borghese contemporaneo che strizza l’occhio al celebre America Oggi di Altman ambientato però ad Hong Kong. Il film di chiusura, invece, sarà il secondo episodio del grande blockbuster Thermae Romae, successo clamoroso in Giappone, che ha superato persino Titanic al box office. E’ un peplum fantasy mai visto da noi. In concorso per l’Audience Award con il pubblico popolare che vota il suo film preferito, 60 film da 9 paesi diversi.
Trailer Aberdeen
Uno dei temi del festival è la celebrazione di Hong Kong che sembra intrappolata dai confini, e deve confrontarsi con il mercato della Cina, sembra perdere la sua cultura. La selezione dei film proveniente da Hong Kong è una delle più importanti di questa edizione del festival. Il Far East Film è un festival di cinema contemporaneo che offre una selezione della migliore produzione cinematografica asiatica, dai blockbuster ai cult movies, fino a presentare alcuni artisti emergenti. “Il Far East vuole mettere a fuoco l’intero arco della produzione asiatica, sia colto sia quello più popolare. C’è un ritorno del thriller e dell’ action, attraversati anche da un tema di attualità: i social network. Le civiltà asiatiche mostrano maggiormente come i vari social siano diventati parte integrante della nostra vita (per es. il film The Snow White Murder Case di Yoshihiro Nakamura parla di un omicidio con trame e sottotrame sul web, o Be My Baby, un film che sembra claustrofobico poiché si svolge in un piccolo appartamento,ma non lo è perché i personaggi sono sempre connessi con il cellulare e creano un cerchio ideale fuori dalla ristrettezza dell’ambiente fisico). Tra gli ospiti più attesi del festival inoltre è atteso Fruit Chan che presenta il suo film The Midnight After, unna commedia horror-surreale eccentrica che racconta l’ossessione di Hong Kong per la “data di scadenza“, e sarà il protagonista di un incontro con Marco Muller la prima domenica del festival 27 Aprile. Poi presenti anche due vere dive del cinema orientale, come Sandra Ng protagonista di Golden Chickensss, una commedia sulla prostituzione remake di Golden Chicken.
Trailer Golden Chickensss
E la filippina Eugene Domingo, considerata l’Anna Magnani delle Filippine, che viene per presentare il dramma politico Barber’s Tales, nel quale interpreta una donna moglie di un barbiere, che rimane vedova e diventa barbiere donna del paese. E’ un film che nasce come commedia paesana piacevole e si trasforma in un dramma politico e in un elogio della ribellione. “Due anni fa il cinema era al tramonto nelle Filippine, non era più attiva la produzione locale e solo il cinema americano veniva mostrato nelle sale. Ma poi una politica culturale particolare e il sostegno di alcuni piccoli festival indipendenti hanno permesso una rinascita del cinema filippino con giovani registi che hanno rilanciato il cinema nazionale. E noi abbiamo selezionato 6 film, come grande novità per quest’anno. Questo evento tuttavia sottolinea una cosa importante, l’idea della politica come stimolo e accompagnamento per il cinema!” ha dichiarato Sabrina Baracetti, aggiungendo una riflessione sulla’ importanza del cinema nella Regione del Friuli: “In Friuli il cinema è un argomento comune, ma con la legge del 2006 abbiamo avuto una serie di successi come nel 2013, Zoran il Mio Nipote Scemo, TIR, The Special Need, Oltre il Guato, Parole Povere. Questa è una regione che sostiene il cinema con un sistema di sale di qualità, con la distribuzione della Tucker Film e la conservazione della Cineteca del Friuli. I film non rinunciano al legame con il territorio. Non servono festival grandi per la vanità del politico di turno, ma un’ offerta di esempi e di conoscenza come il Far East o le Giornate di Cinema Muto di Pordenone”.
Interessanti poi due grandi novità nel Far East Film Festival, come la sezione dei Documentari, che include 4 film tra cui The Search of Weng Weng che cerca di ricostruire la vita di un nano campione di karate che era considerato il James Bond delle Filippine, o Hello Orchestra che racconta di alcuni bambini svantaggiati che suonano musica classica. E poi la sezione dei Classici restaurati in 2k. Un film fondamentale è il giapponese Good Morning di Yasujiro Ozu, uno di sei capolavori del regista, che poi saranno distribuiti nelle sale grazie alla Tucker Film. “Ozu è l’incrocio di un’astrazione geometrica affascinante e la capacità di inserire umanità nelle storie. Astrazione e concretezza umana. Questo è un film di bambini che mostra perfettamente questo incrocio” ha sottolineato Giorgio Pacinali.
Come gli altri anni, il Far East Film Festival coglie l’occasione anche per animare la città di Udine, che, come afferma la Direttrice “si tingerà di giallo” e sono oltre 60 le attività previste in vari luoghi della città. Come sottolinea la sigla del festival di quest’anno “siamo di questa terra ma guardiamo lontano“.
Festival
Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival
Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.
Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).
Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.
Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.
Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.
Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.
Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).
Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.
Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.
Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.
Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.
Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).
Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.
La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).
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Venezia 81: Pupi Avati torna al cinema horror con L’Orto Americano | Recensione
Il protagonista de L’Orto Americano ha tutte le caratteristiche dei tipici personaggi di Pupi Avati: ha un candore e un’ingenuità tali da renderlo inadatto agli ambienti in cui si trova a vivere (che sia la provincia americana o la bassa padana) e soprattutto, essendo un romanziere che non è mai stato pubblicato, alle prese con un altro romanzo probabilmente destinato a rimanere anch’esso relegato nell’oblio, si inserisce in quell’ampio catalogo di sognatori insoddisfatti che il regista emiliano ha raccontato durante tutta la sua filmografia.
Si muove in una società che guarda con diffidenza chi racconta “storie”, che considera scrittori e narratori come dei bugiardi naturalmente predisposti a inventare e a ingannare. Ironicamente, si ritrova proprio ad indagare su di un caso – la sparizione misteriosa di una donna, data per morta – così aleatorio, data la scarsezza di prove e indizi tangibili, che non si può far altro che colmare le lacune con supposizioni, congetture, ipotesi.
Il giovane investigatore (un bravissimo Filippo Scotti) è uno che pensa che la realtà sia sempre troppo modesta, deludente e noiosa ed è per questo che ha l’abitudine di confidarsi con i morti, con le persone care che non ci sono più e che tiene sempre con sé in un vecchio raccoglitore di foto.
Immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che gli furono care lo tiene in vita e anche solo invocare i loro nomi lo fa sentire in un mondo già più grande di quello che è davvero.
L’Orto Americano: omaggio al cinema americano dei Cinquanta
Questo nuovo film di Pupi Avati, il primo in bianco e nero in una carriera estremamente prolifica, si confronta con il cinema che il regista ha amato in gioventù, quello americano degli anni Cinquanta che ha contribuito a plasmare il suo immaginario da regista.
L’Orto Americano, alla veneranda età di 85 anni, assomiglia infatti, con tutti i limiti del caso e tollerata una fastidiosa approssimazione in molti aspetti più tecnici, ad un film della maturità e non ad uno senile: un coraggioso tentativo di proseguire quel filone “americano” della sua filmografia che è sempre stato il più doloroso, disilluso, in cui veniva messo alla prova il sogno provinciale della “terra promessa” oltreoceano, saggiandone l’inconsistenza.
Anche ne L’Orto Americano, come in tutti i film di Avati, la Storia, in questo caso quella del secondo dopoguerra, lambisce soltanto il racconto, determinando il contesto entro il quale si dipanano i temi cari al regista: l’illusione e la delusione, la mortificazione inflitta dall’esperienza, la disperata resistenza ad ammettersi perdenti.
Ed è proprio quest’ultima a spingere il protagonista nella sua erratica ricerca, totalizzante e destinata fin dal principio a poter essere completata solo nel sogno, nella fantasia. Nella scrittura come nel cinema.
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Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta
Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.
Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).
A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.
Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.
Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.
Joker: Folie à deux, un musical a metà
Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.
Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?
La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.
Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).
Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.
Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.
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