Viscere di cadaveri sezionati ed elucubrazioni filosofiche sull’essenza della natura umana fanno da incipit alla pellicola. Visivamente crudo e tetro, l’ambiente che circonda Faust (il suo laboratorio, le case), fanno da contrappunto alla profondità delle riflessioni dei personaggi. L’incontro col Diavolo sarà la risposta al desiderio di conoscenza di Faust. Inizia un infinito dialogo peripatetico tra l’Uomo e il Diavolo, un viaggio in una dimensione a metà strada tra la realtà e l’allucinazione, per scandagliare la natura umana, nelle suo più intime pulsioni e debolezze, e per giungere, alla fine alla soglia della conoscenza del Male. Forse un tassello mancante nella ricerca di Sokurov di raccontare a suo modo l’uomo contemporaneo. Una regia che opera una scelta formale precisa, in direzione di un effetto claustrofobico, per il formato, 4:3, la scelta di ottiche tele, poco incise, l’uso di lenti deformanti e una fotografia diafana.
Un’esperienza di totale immersione, ma anche di totale immobilità. Stilisticamente incastonato nel cinema di Sokurov di dieci, quindici anni fa, Faust procede verbosamente, in una riflessione che sembra piegarsi su se stessa. Un dialogo chiuso, claustrofobico come le immagini. L’unica apertura sembra essere l’incompiutezza della riflessione, alla fine del, che svela, in un campo lungo di un ghiacciaio, all’eroe il suo cammino futuro. Ma il viaggio Faust, lo compie da solo, nella sua solitudine non c’è spazio per lo spettatore.