Bono presenta fuori concorso a Cannes il film Stories of Surrender, trasposizione cinematografica dell’omonimo spettacolo teatrale che ha accompagnato la pubblicazione della sua autobiografia. Prossimamente su Apple Tv+.
Andrew Dominik, già dietro la macchina da presa per due splendidi documentari su Nick Cave, ovvero This Much I Know to Be True (2021) e One More Time with Feeling (2016), torna al suo bianco e nero espressionistico per raccontare la storia di Bono, o meglio di Paul (questo il suo vero nome), in un film che non è 3D come i precedenti, ma che conserva ugualmente intatta una sua spiccata componente di immersività, anche senza visori di sorta.
A differenza che nei documentari su Cave, stavolta Dominik si “limita” a riprendere lo show costruito dal cantante irlandese per accompagnare l’uscita della sua autobiografia. Uno spettacolo che è passato da alcuni dei più grandi e importanti teatri del mondo, ma che nella trasposizione cinematografica di Dominik acquista una sua nuova intimità, come se il pubblico in sala (pur presente e mai nascosto), fosse più una proiezione della mente dello stesso Bono, che una vera folla pagante e adorante.
Lo show metafisico di Bono
È uno spazio mentale e metafisico quello che costruisce Dominik, in cui il front-man (non leader, attenzione!) degli U2 è in grado di muoversi con grazia e leggerezza, toccando alcuni dei temi fondamentali della sua esistenza (la morte della madre quando era ancora piccolino, il conflittuale rapporto con il padre, i più recenti problemi di salute) e spiegando come questi abbiano poi influito sulla composizione di alcune delle canzoni più famose della band.
Attorno a lui una scenografia cangiante, un teatro che ne contiene tanti altri (da Broadway al San Carlo di Napoli), anch’essa quasi una proiezione dell’immaginazione piuttosto che un luogo fisico. Dominik riesce così a travalicare la natura documentaristica, persino promozionale, del proprio lavoro e a raggiungere un maggiore grado di astrazione, dando l’idea di una confessione rivolta a qualcuno che non ci è dato vedere.

È un one-man-show questo Stories of Surrender, ma allo stesso tempo Bono cita costantemente gli altri membri del gruppo, così come gli altri collaboratori che sono stati indispensabili nella sua carriera, e li evoca come se fossero fantasmi, lasciando a ognuno di loro una sedia vuota da occupare sul palco.
La presenza di Bono su schermo ovviamente è molto differente da quella di Nick Cave, predicatore torturato e riluttante, e per questo Dominik adatta il suo stile alla voglia incontenibile del suo protagonista di raccontarsi, lavorando benissimo con le luci, capaci di creare un vero e proprio spettacolo stroboscopico, e con i movimenti di macchina.
Il film inizia con un momento che sfiora quasi la slam poetry e che ci fa subito capire come non ci sia in realtà nulla di improvvisato o spontaneo nella performance di Bono, ma che si tratta invece di un copione scritto con grande cura e con grande attenzione verso le parole utilizzate, non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche dal punto di vista lessicale e musicale.
Chi è davvero Bono?
Bono si interroga su sé stesso, arrivando ad ammettere la propria ipocrisia, quella di una ricca rock star privilegiata che pontifica sui problemi del mondo, ma allo stesso tempo la esibisce con orgoglio, nella convinzione che non siano per forza le motivazioni che si nascondono dietro a un gesto a contare, ma il risultato del gesto stesso.
Così il cantante si pone al centro della scena, al centro dell’attenzione, ma allo stesso tempo scherza su questo ruolo, rivendicando una sua marginalità.
L’occhio di Dominik, però, non lo lascia mai solo. Si avvicina sempre di più, arriva persino a moltiplicarlo sulla scena, affidando al suo volto quello di tutti gli altri personaggi che vengono raccontati: il papà Brendan Robert Hewson, l’amico fraterno The Edge, persino il maestro Luciano Pavarotti.
Bono parla costantemente della necessità di “arrendersi”, di lasciare spazio agli altri, di saper fare un passo indietro, ma il film sembra lavorare nella dimensione esattamente opposta, in una estenuante sfida con il proprio soggetto.