La risposta è semplice, il regista Takehito Kuroha, nei soli 5.49 minuti del corto, riesce ad inscenare una tipica scena di vita quotidiana, un ritaglio di esistenza che spesso ci ritroviamo a vivere senza neanche rendercene conto, spingendosi però ben oltre. Il cortometraggio genera inevitabilmente sorrisi ed allo stesso tempo, inquietudini in quanto riesce a cogliere in pieno la vera essenza dell’essere umano, quella che spesso (ma non sempre) riusciamo a celare dietro il perbenismo ed il quieto vivere. Prodotto da Artea Film, The Family e Sky Cinema, affronta una giornata particolare di un uomo (Cristiano Di Vita) ed una donna (Francesca Faiella) qualsiasi. Lei si alza, come ogni mattina, e sa che per sopravvivere dovrà farsi largo nel traffico a suon di clacson. Lui sa che per resistere all’incedere della routine metropolitana dovrà armarsi di tanta, veramente tanta pazienza. Ma l’intento dei due è ben presto vanificato. “Clacson” si apre seguendo il ritmo frenetico della città che è in procinto di ricominciare una nuova giornata e risuona inesorabile il ticchettio del tempo. Segue i due personaggi in maniera speculare, di pari passo analizza la scena della protagonista che con tutto il suo nervosismo sfoga istinti repressi in maniera plateale, esagerata, e dall’altra parte ritroviamo uno scenario ben diverso, il protagonista, rintanato nel suo angolo di mondo, pronto per andare a caccia di selvaggina, armato di tutto punto anche se la preda diventerà ben presto un’altra, la sua quiete. Nell’arco di questi sei minuti in cui il regista è riuscito a tirar fuori il lato più disumano dei due protagonisti, chi in preda alla nevrosi più profonda chi invece, celatosi dietro un gelido sorriso, commette il gesto più folle, si consuma il dramma, sintomo della società in cui viviamo, consumata costantemente da qualsiasi tipo di idiosincrasia, priva oramai del (buon)senso della misura.
Clacson:
“Clacson è un film autobiografico. Anzi, parla di qualcosa che capita ogni giorno a ciascuno di noi, e che per questo può far sorridere, ma anche inquietare. Camuffati sotto l’aspetto di uomini e donne sorridenti e ben vestiti, opulenti, a mollo dentro termini come ‘sviluppo’ e ‘progresso’, apparentemente ligi a regole e rituali imposti dalla nostra cultura… a volte dimentichiamo che la parte primordiale, più brutale e violenta di noi (sia a livello di individui, che di popoli, religioni, culture) è sempre a un passo dall’esplodere, anche per un nonnulla” (Tak Kuroha)