Il sogno coronato di Ray LaMontagne Da “Trouble” a “God Willin’ & The Creek Don’t Rise”, l’incredibile ascesa del cantautore statunitense

Avete presente quei film che fungono da apologia del famigerato “sogno americano”? La trama-tipo e pressoché la medesima: un protagonista, rigorosamente sfigato – sul lastrico – da un giorno all’altro ribalta radicalmente la propria precaria condizione sociale; il tutto grazie a qualche talento riscoperto o ad un’occasione presa al momento giusto, nel luogo giusto e con un’influenza astrale totalmente a proprio favore – come dalla migliore delle tradizioni New Age. Sembra incredibile, ma qualcosa del genere, di rado, accade non solo nei lungometraggi di Gabriele Muccino. Succede infatti che, ad esempio, un giovane operaio del Maine, prima di attaccare il suo estenuante turno di lavoro in una fabbrica di scarpe, ascolti alla radio Treetop Flyer di Stephen Stills e ne rimanga completamente folgorato. Una manciata di minuti di pura alchimia eterea, sufficienti a far si che il nostro umile lavoratore, Ray LaMontagne, decida di dedicarsi solertemente alla realizzazione di un sogno: intraprendere la carriera di musicista e cantautore. I passi sono quelli di un tirannosauro: nel 1999 invia un demo a Jamie Cerretta della Chrysalis sul quale fa colpo   e lo induce a far pubblicare, il suo primo album, Trouble (2004) dalla RCA.

Nel citato lavoro Ray canalizza tutto il proprio talento, ponendolo in essere grazie ad un sound folk-rock ed una voce graffiata, netta, catartica. La formula proposta convince un pò tutti – pubblico, critica, gli adepti del genere – a tal punto da far balzare l’album nella top 5 della classifica inglese e  a spingere l’ormai ex operaio del Maine a continuare a battere ferro. Così ecco che tra il 2006 ed il 2008 prendono forma altri due dischi, Till the Sun Turns Black e Gossip in the Grain, che testimoniano un estro compositivo in piena evoluzione, lontano dalla più remota espressione manierista. Ma è nel 2010 che Ray LaMontagne raggiunge il proprio acume, pubblicando God Willin’ And The Creek Don’t Rise. Un album maturo, reso sublime grazie alla presenza dei Pariah Dogs, band che sostiene il connaturato talento del cantautore grazie ad un vorticoso e coinvolgente sound roots decisamente eclettico, influenzato dal soul, ma anche dal country e dal funk (l’open track Repo Man la dice lunga in merito). Un disco che, grazie ai suoi raffinati ricami di pedal steel, è in grado di edulcorare l’arduo rientro dalle mete vacanziere e ricondurre alla prospettiva autunnale nel più armonioso dei modi.