Anche l’horror ha trovato il suo spazio al Festival di Cannes. Sean Byrne, già autore di due cult del genere come The Loved Ones e The Devil’s Candy, ha presentato in concorso alla Quinzaine des cinéastes il suo nuovo film: Dangerous Animals.
Dangerous Animals, terzo film firmato da Sean Byrne, regista già molto caro agli appassionati di cinema horror, si pone l’obiettivo, ancora una volta, di mescolare i sottogeneri tra di loro, rimaneggiando narrazioni archetipiche e giocando con i cliché che accompagnano questo tipo di racconti.
Stavolta la storia è quella di Zephyr (Hassie Harrison), una surfista ribelle che viene rapita da un serial killer ossessionato dagli squali (Jai Courtney). Dopo essere stata rinchiusa nella stiva di una barca in mare aperto, dovrà trovare un modo per fuggire prima che l’uomo porti a termine il suo macabro rituale sacrificale, dandola in pasto agli squali che nuotano sotto il livello dell’acqua.
Abbiamo avuto modo di farci raccontare il film dal regista Sean Byrne e da Jai Courtney, carismatico e assolutamente imprevedibile nel ruolo di un serial killer molto diverso da quelli che siamo abituati a conoscere al cinema.
D: Inizierei innanzitutto chiedendo a Sean perché ci sono voluti dieci anni per realizzare questo film. In The Devil’s Candy raccontavi anche di questa tua frustrazione e quindi ti chiedo cosa rappresenta per te Dangerous Animals in questo momento della tua carriera da regista.
Sean Byrne:
Beh, è stato molto frustrante aspettare tutto questo tempo. Purtroppo non è facile farsi finanziare film originali, ma soprattutto film che hanno al centro la cattiveria degli esseri umani rivolta contro i loro simili, la totale mancanza di empatia del genere umano.
Sono questi i temi che mi interessano. Raccontare di una malvagità che potresti incontrare ogni giorno nella tua vita, magari andando al supermercato, piuttosto che di un male impalpabile, sovrannaturale. Perciò quando mi è capitata tra le mani la sceneggiatura di Nick Lepard l’ho subito trovata perfetta.
È una sceneggiatura per un film commerciale, perché io mi sento un regista commerciale. Ma allo stesso tempo non ha paura di picchiare forte e di parlare di determinati temi. Un film horror deve spaventare, specialmente in tempi come questi, in cui la realtà spesso ci terrorizza. Lo spettatore non deve uscire dalla sala, pensando: cavolo, la realtà è più spaventosa del film che ho appena finito di vedere.

D: Ecco, tu cerchi sempre nei tuoi film di giocare con canovacci già noti per poi ribaltare le aspettative degli spettatori. In questo caso il canovaccio narrativo risale ai tempi de Lo Squalo…
Sean Byrne: Sì, esatto. Da Lo Squalo in poi questi animali sono stati sempre raccontati come mostri, come bestie feroci, quando in realtà la ferocia appartiene principalmente agli umani. Sicuramente la paura verso gli squali deriva dal fatto che sono creature estremamente potenti e misteriose.
Ma quello che cerchiamo di fare in questo film è di spiegare in qualche modo che gli squali veri non sono come quelli che vediamo spesso al cinema. Non attaccano indiscriminatamente gli essere umani. Quello è ciò che avviene ne Lo Squalo, appunto, non nella realtà. Ovviamente il film di Spielberg, che è stato un enorme successo al botteghino, ha creato tantissimi film simili, che non hanno mai messo in discussione quell’idea degli squali.
Jai Courtney:
Gli squali sono animali pressoché inavvicinabili. Ed è per questo che sono spaventosi. Non fanno parte della nostra quotidianità. È molto più facile incontrare un orso, in certi territori. Ad esempio attorno a casa mia (ride, ndr). E questo pone anche un quesito cinematografico, ci porta a interrogarci su cosa mostrare e cosa non mostrare di questi animali, che riescono a incutere terrore anche solo attraverso il movimento della loro pinna che emerge dall’acqua.
D: Infatti una delle peculiarità di questo film è proprio la scelta di ricorrere a delle riprese subacquee reali per mostrare gli squali in una veste quasi documentaristica, riducendo al minimo la computer grafica.
Sean Byrne: La computer grafica viene utilizzata solamente per ricreare le pinne che emergono dall’acqua, ma tutte le riprese frontali degli squali sono riprese reali. Abbiamo visionato tantissime ore di materiale per trovare quelle giuste che potessero combaciare con il nostro storyboard. Quello che mi interessava era anche restituire visivamente la varietà di questa specie, non solo il great white shark ma anche tutti gli altri. E soprattutto la loro imperfezione. Gli squali in computer grafica sono tutti noiosamente e perfettamente levigati…
D: Una decisione che si accompagna a quella di aver girato effettivamente quasi tutto il film in mare aperto, su di una barca, senza l’utilizzo di vasche…
Sean Byrne: Sì, è stata sicuramente una sfida, ma credo che abbia aiutato le performance degli attori in maniera significativa. Ci sono cose che non si possono ricreare e che comunque, se ricreate, non eguaglierebbero mai l’effetto che si ha nell’ambiente naturale, con i suoi fenomeni atmosferici, con gli schizzi d’acqua e sale sulla pelle degli attori. Influisce anche la tensione che si percepisce sapendo che si è esposti all’imprevisto, che non tutto si può calcolare durante le riprese. Top Gun: Maverick è stata una fonte d’ispirazione per questo look estivo, soleggiato, del film.
Jai Courtney: C’è stato anche un incidente, fortunatamente senza conseguenze, che ha coinvolto uno degli stunt divers che lavorava con noi. C’era diversa attività nelle acque in cui abbiamo girato il film. All’inizio ero terrorizzato dall’idea di girare in mare aperto. Pensavo: sarà un disastro, avremo tutti il mal di mare e non riusciremo a lavorare.
Mentre è stato molto utile rimuovere il più possibile le barriere che ci separavano dalla realtà. Per andare sul set ogni giorno dovevamo prendere una barca e così gli operatori, anche solo per cambiare una lente, dovevano spostarsi con le moto d’acqua.
D: Veniamo quindi al personaggio di Tucker, questo serial killer atipico che si sente in qualche modo parte del regno animale. Un predatore. Quanto è stato condiviso con Jai della sua backstory e delle sue motivazioni prima di cominciare a girare?
Sean Byrne: Abbiamo puntato molto sul carisma di questo villain, che richiama un po’ quello di personaggi televisivi australiani come Steve Irwin e Paul Hogan. Dietro al loro sorriso sembravano sempre nascondere un’inquietudine.
E Jai è stata una scelta perfetta, perché è capace di essere divertente, come ad esempio nei panni di Capitan Boomerang in Suicide Squad, ma anche di trovare quel bambino col cuore spezzato che si nasconde dentro a un personaggio come quello di Tucker. Un villain in un film horror deve avere delle sfumature, altrimenti non funziona.
E soprattutto gli attori devono conoscere che cosa ha portato i personaggi che devono interpretare a quel punto lì. Lo spettatore può anche non sapere alcune cose, unire i puntini in autonomia, ma per chi deve recitare credo sia necessario.
Jai Courtney: C’è della tenerezza, c’è delle vulnerabilità, in lui. Da attore non posso giudicare i personaggi che devo interpretare. Agli spettatori non viene chiesto di empatizzare con questo assassino, ma in qualche modo io lo dovevo fare. Dovevo cercare di capirlo da dentro.
Lui crede davvero alla sua crociata, alla verità che si è fabbricato per sé. È capace di cose terribili, ma c’è una malata coerenza in quello che fa. Non produce dolore solo per il gusto di farlo. Sean mi ha fornito abbastanza indizi per lavorarci su e mi sono principalmente concentrato nel mantenere sempre bene a mente che parliamo di una persona danneggiata da qualcosa che è avvenuta nella sua infanzia, da una mancata attenzione nei suoi confronti.
D: Mi sembra che il film giochi molto sul ribaltamento di alcuni cliché del genere e che in qualche modo contenga al suo interno tanti riferimenti cinematografici differenti, con un gusto molto post-moderno. Da Lo Squalo, ovviamente, fino a Saw e Black Phone.
Sean Byrne: Io amo tutto il cinema dell’orrore. Amo Lo Squalo, che è un capolavoro dal punto di vista tecnico, ma anche un film che ha un suo contenuto di denuncia politico. Amo gli slasher come Venerdì 13 e i serial killer come Jason Voorhees, che sono incarnazioni di un male ancestrale. Amo i “video nasty” degli anni Ottanta, gli horror sovrannaturali… e quindi cerco di mettere tutto questo nei miei film.
Anche Saw, come giustamente dici. È un genere che ti permette davvero di fare ciò che vuoi. In questo caso direi che: “In alto mare nessuno può sentirti urlare”. E quindi arriviamo ad Alien (ride, ndr). Gli spettatori sono sempre più intelligenti di chi realizza i film, quindi la mia ambizione è quella di superare sempre le aspettative dello spettatore, giocando magari con delle narrazioni con cui hanno familiarità, ma per poi andare in tutt’altra direzione. È quello che ho fatto fin dal mio primo film, The Loved Ones, in cui il modello era quello del coming-of-age alla John Hughes.
Jai Courtney: Io non sono un grande appassionato di horror. Ma mi piace molto lavorare sulle inquietudini. Mi interessano molto film come quelli di Ari Aster e il mio villain preferito è sicuramente Hannibal Lecter. Per il resto, lavoro sulle cose che conosco, senza pensare molto a riferimenti esterni. Tucker è un personaggio “cringe”, diremmo oggi. Ma è credibile. È una persona che ho già incontrato tante volte in taxi o una che potrei facilmente incontrare al matrimonio di mio cugino (ride, ndr).