Il leggendario regista James Cameron si è collegato in streaming dalla Nuova Zelanda – dove è attualmente in post produzione il terzo film di Avatar – per una masterclass organizzata dal Museo del Cinema di Torino.
Doveva essere fisicamente a Torino, ma alla fine James Cameron, regista di film iconici come Terminator e Titanic, non ha potuto lasciare la città di Wellington, in Nuova Zelanda, dove è attualmente in corso la post produzione di Avatar 3: Fire and Ash, finalmente in arrivo (salvo slittamenti) a dicembre di quest’anno.
A lui è dedicata la mostra The Art of James Cameron, attualmente in corso al Museo del Cinema di Torino, con una esposizione di oltre trecento pezzi originali, inclusi disegni, dipinti, bozzetti, oggetti di scena, costumi e fotografie.
Cameron, in dialogo con Carlo Chatrian, direttore del Museo, si è lasciato andare ad aneddoti, curiosità e riflessioni sulla sua filmografia e sullo stato del cinema in generale, rispondendo anche ad alcune domande del pubblico.
James Cameron: Nuova Zelanda chiama Torino
Il suo racconto comincia dai primissimi anni e dalle primissime letture (ancora prima che visioni cinematografiche) che lo hanno formato: “Sono cresciuto negli anni ’60. C’erano le manifestazioni contro la guerra in Vietnam e vivevamo all’ombra di una potenziale guerra atomica. Tutto sembrava rischioso, ma trovavo sollievo nelle storie che leggevo, sui fumetti in bianco e nero, così come nei romanzi, nelle opere di artisti e illustratori che amavo. C’erano mondi migliori dentro quelle storie e quelle opere. E questo credo mi abbia influenzato molto. Se c’è una cosa che spero è che la mostra attualmente in corso a Torino possa essere visitata da ragazzi di 16 o 17 anni che capiscano che è già possibile a quell’età esprimere se stessi”.
I film che lo hanno colpito da ragazzino? “Sicuramente da piccolino film come Mysterious Island o Il 7º viaggio di Sinbad e poi più avanti Kubrick, con 2001: Odissea nello Spazio. È strano, perché adesso lo vedo in maniera completamente differente: lo trovo troppo freddo, asettico. Però allo stesso tempo ci sono cose di quel film che rimarranno per sempre nella storia. Ma è stato Guerre Stellari a permettermi di sognare in grande, a farmi capire che era possibile portare la propria immaginazione sullo schermo del cinema. Ma ricordatevi che all’epoca non avevamo le immagini che abbiamo adesso su internet. Io trovavo questi materiali a spizzichi e bocconi. Non c’era l’alluvione di immagini”.
“Non sapevo ancora come farlo, ma sapevo a quel punto che era possibile. Così è nato Xenogenesis, il mio primo cortometraggio. Era un piccolo film pieno zeppo di idee, ma adesso posso dire di essere stato fortunato a non aver avuto allora i soldi per poterle realizzare tutte. Perché poi molte di quelle idee mi sono servite in Aliens – Scontro finale, in Terminator e persino in Avatar, quando avevo finalmente la tecnologia giusta a disposizione per dare loro giustizia”.
Dopo quel primo tentativo da regista, Cameron ha iniziato a lavorare negli anni Ottanta come tecnico degli effetti speciali nell’équipe di Roger Corman per I magnifici sette nello spazio (1980), fino ad arrivare poi a collaborare a 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter. “Fu un matrimonio tra due culture diverse di cinema low budget. Io e i miei colleghi realizzavamo effetti speciali a bassissimo costo per Corman, ma allo stesso tempo anche Carpenter, che io adoravo, lavorava con budget tutto sommato limitati. Io sognavo di diventare come lui, anche se il mio approccio era diverso.
Lui era concentrato, veloce, sapeva quello che voleva. Io giocavo più con l’immaginazione, mentre lui era più squadrato. Ma lavorare contemporaneamente per due giganti come Carpenter e Corman è stata una grande formazione per me”, spiega Cameron. Proprio quella influenza carpenteriana lo avrebbe poi condotto a realizzare uno dei suoi capolavori più amati: Terminator, iniziato ad abbozzare disegnando su carta proprio mentre era in Italia, “in una pensione romana, senza soldi”.
Il mondo di Avatar
Quella passione per il disegno, per la pittura, è rimasta vivo nel tempo e lo ha aiutato anche nella realizzazione della saga di Avatar. “Per me è importante creare un’intimità artistica tra poche persone, in un team ristretto che coinvolge gli scenografi, gli attori, il direttore della fotografia… persone che seguono passo passo il mio flusso di idee e con cui mi scambio continuamente disegni e bozzetti.
È indispensabile affinché tutti possano capire i personaggi, capire il mondo in cui si muovono e qual è la mia idea su questi aspetti. Solo dopo si può passare a lavorare anche con mille persone, come stiamo facendo adesso per gli effetti visivi. Quello di Avatar è un progetto che dura da tutta una vita. È un mondo così ampio che è diventato appunto tutta la mia vita: è un mondo ricco e complesso esattamente come quello in cui viviamo. Ne è uno specchio, in qualche modo. È molto importante conoscere cosa c’è dentro di noi: la paura, l’odio, l’amore. Questo è il potere dell’arte, prendere un aspetto dell’essere umano e riversarlo all’esterno in modo da raggiungere tutti”.

“Nel film ci troviamo su un pianeta nuovo con creature sconosciute, che però si comportano come noi. Per questo sono comprensibili a un pubblico globale, in tutte le nazioni. Ma allo stesso tempo, volevamo che si muovessero in un modo non totalmente umano. E così abbiamo immaginato un diverso modo di sedersi, di muoversi. Più felino. Mi sono chiesto: fino a che punto posso aumentare le proporzioni del volto di Neytiri affinché appaia diversa dagli umani ma in qualche modo riconoscibile?
Ho scelto poi come attrice Zoe Saldana, molto felina nei movimenti. Lei è stata una ballerina in passato e ha mantenuto quella fisicità, quella grazia. Abbiamo fatto molte prove prima della performance capture, perché tutto dev’essere definito prima. Adoro la libertà che mi dà questo processo: ad esempio il non dover pensare subito all’illuminazione.
Per Titanic ho dovuto invece fare molta attenzione alla fotografia, all’illuminazione, che mi ha tolto tempo ed energie, mentre con la performance capture mi posso focalizzare davvero sull’attore, perché so che mi preoccuperò del resto successivamente. E a quel punto, quando arrivi in post produzione è nuovamente come dipingere su una tela”.
Il cinema di supereroi? Solo superficialità
Dopo aver rivelato la sua passione giovanile per i fumetti, è arrivata puntuale una domanda dal pubblico. Cosa ne pensa James Cameron degli onnipresenti film sui supereroi? “I supereroi sono il nostro nuovo pantheon. Come gli eroi dell’antica Grecia sono potenti e immortali, ma allo stesso tempo ci devono sembrare umani, fallibili e imperfetti come lo siamo noi. Questa è una cosa che si può ritrovare nelle storie a fumetti. Ma al cinema è diverso. Bisognerebbe chiedersi: perché ci dovremmo far intrattenere da questi personaggi?
Si fatica a percepirli come umani sfaccettati, a sviluppare un attaccamento profondo nei loro confronti. Rimane tutto in superficie. Da spettatore, mi dovrebbe interessare se qualcuno di loro muore, se una relazione tra due personaggi si rompe. Penso a I Guardiani della Galassia: è un film con tanto umorismo, ma poco altro. Spesso il mio amico Guillermo Del Toro mi prende in giro dicendo che mi manca il dono dell’ironia. Ne sono consapevole, lo faccio apposta. L’ironia non mi interessa”.
Un messaggio finale: “dream big”
Dream Big, sognare in grande. Questo, in conclusione, il messaggio lanciato da James Cameron alla platea del Cinema Massimo di Torino. “Se volete fare gli artisti, non cercate approvazione. Non siate ossessionati dal consenso, dalla fama, dai like sui social. Bisogna fare le cose solo se queste sono effettivamente importanti per noi. Solo lavorando a qualcosa che soddisfa prima di tutto noi stessi probabilmente presto o tardi arriverà qualcun altro che troverà un collegamento profondo con la nostra arte”.