L’opera, commissionata nel 1983 dal Museo Haggerty del Milwaukee, che proprio in quegli anni apriva le sue sale, presenta i graffiti su entrambi i lati, con bambini che gattonano, figure che rimandano ai ballerini di breakdance, un uomo con la testa di ser- pente, i cani. Insomma tutto ciò che fa parte della poetica di Haring entra di diritto in questo murale, realizzato attraverso un lin- guaggio semplice, elementare, che sconfina nel fumetto, nel cartoon. Un linguaggio comprensibile, perché è proprio da tale presupposto che Haring delinea la propria attività artistica: “Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare”. Idea che trova fondamento nella Graffiti Art di cui possiamo considerare Haring progenitore di diritto.
Haring morì troppo giovane. Quando aveva solo trentuno anni. Morì di AIDS, ed era il 1990. Di questa malattia Haring scrive sui Diari nel 1987: “Non sono vera- mente spaventato dall’Aids. Non per me stesso. Sono spaventato dal dover guar- dare tante persone morire dinanzi a me. Vedere morire Martin Burgoyne o Bobby è stata una pura agonia. Mi rifiuto di morire così. Se arriva il momento, penso che il suicidio sia molto più dignitoso e più facile per gli amici e le persone che si amano. Nessuno merita di assistere a questo genere di morte lenta”. Da quel sei febbraio del 1990 sono passati ventuno anni ed Haring non è mai realmente morto. Anzi è diventato un’icona del pop e della libertà artistica. E questa mostra, realizzata sotto l’organizzazione di Alef cultural project management di Milano, continua a ricordarcelo.