Si è detto spesso che “Il malinteso” è il dramma della castrazione, della negazione maschile spinta alle estreme conseguenze tanto da infrangere uno dei tabù originari della natura: l’impossibilità per una madre (e per una sorella) di riconoscere il proprio sangue. Si tratta quindi di una tragedia assoluta, ma non tanto per l’efferatezza degli omicidi fino al mostruoso epilogo, quanto per l’apparente levità con cui vengono commessi: non c’è un futuro per le due donne, che non sia la favola di un “altrove” pieno di sole a cui non mostrano mai di credere fino in fondo. Esiste invece la routine di una ribellione sorda che si ripete meccanica, come fosse solo un aspetto delle faccende domestiche di un vecchio albergo sull’orlo della chiusura: l’accoglienza del malcapitato, il tè drogato, la spoliazione dei beni, il corpo fatto scivolare nel fiume che si incarica della sepoltura, almeno fino alla prossima chiusa, dove andrà ad impigliarsi con quello dei suicidi.