Lo Squalo | Il film di Steven Spielberg compie 45 anni

In Italia sarebbe arrivato solo nel periodo natalizio, un range alquanto insolito vista l’ambientazione estiva e le tematiche dal taglio di “horror per famiglie”, ma negli Stati Uniti vide la luce il 20 giugno: dopodomani Lo squalo festeggia quarantacinque anni, ma il tempo non ha per nulla scalfito il fascino primigenio di un’opera che ha indelebilmente segnato la storia del cinema. Nel 1975 il film di Steven Spielberg ha introdotto gli archetipi del blockbuster moderno, affidandosi al fascino letale di una creatura marina che provoca terrore e rispetto in egual misura qui sfruttata – suscitando critiche dal mondo ambientalista per le false credenze immesse nell’immaginario comune – nei panni di insondabile villain, da temere proprio nell’abile sotterfugio del “vedo-non vedo”. In occasione di quest’anniversario ripercorriamo insieme i motivi di un successo destinato a perdurare fino ai giorni nostri.

La morte corre sul mare

richard dreyfuss roy scheider e robert shaw
Richard Dreyfuss, Roy Scheider e Robert Shaw

Spielberg ne veniva dall’esordio del folgorante Duel (1971), girato per il mercato televisivo, e dal sottostimato ma interessante Sugarland Express (1974). Lo squalo può dirsi quindi il suo vero, definitivo, trampolino di lancio di una carriera con pochi eguali: tre premi Oscar, seppur esclusivamente tecnici, per montaggio, sonoro e colonna sonora, sancirono l’apprezzamento dell’establishment e il clamoroso successo di pubblico – ai tempi fu il maggior incasso di sempre – risultò quale ennesima conferma del talento del regista allora quasi trentenne.

Alla base della pellicola vi è l’omonimo romanzo di Peter Benchley, che attirò in diverse circostanze l’attenzione dei produttori Richard D. Zanuck e David Brown e venne opportunamente “smussato” in fase di sceneggiatura, pur mantenendone le linee guida narrative. E il trio di personaggi protagonisti è uno dei vari punti di forza delle due ore di visione, sia per l’eterogenea interazione tra i suddetti – ognuno di loro caratterizzato magnificamente secondo certi stereotipi – che per l’esposizione di battute e dialoghi, fino alla resa dei conti finale che si apre a pagine pseudo-epiche e filo melvilliane.

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Una tensione reale

una delle scene clou
Una delle scene clou

La verosimiglianza dell’assunto, con i bagnanti della piccola comunità di Amity che vengono fatti a pezzi dalle fameliche fauci del pescecane, ha senza dubbio contribuito al passaparola e alla conseguente immedesimazione da parte dei sempre più numerosi spettatori, rendendo di fatto l’orrore come un elemento tangibile di rara efficacia. La lotta tra uomini e predatore diventa così una metafora sulla ferocia primigenia della natura, impostata tramite un comparto spettacolare delle grandi occasioni: il modello di squalo realizzato ad hoc – ne vennero creati tre in totale per le varie fasi – si trattiene alla vista e proprio la spinta negazione ne amplifica l’impatto quanto compare infine sullo schermo.

Il tutto all’insegna di un intrattenimento duro e puro, dove allo “show” si accompagna un’idonea tensione di genere: Spielberg non ha paura di scioccare chi guarda e pur senza cedere alle malie di una cieca violenza, i momenti ad alta suspense sono parecchi nel corso dei tormentati eventi, in un progressivo crescendo che raggiunge l’apice nella citata resa dei conti finale. La fama ottenuta da questa prima, iconica, installazione del franchise diede vita ad una saga comprendente tre sequel, tra i quali a salvarsi – ma per il rotto della cuffia – è soltanto il diretto successore. Poco importa perché Lo squalo sdoganò definitivamente un filone già esistente ma bazzicato in rarissime occasioni come quello degli shark-movie, dandogli nuova vita e imbastendone gli archetipi per le numerose produzioni a tema che ne seguirono.