Macbeth al cinema: un viaggio insanguinato da Kurosawa a Kurzel

Approdato nelle nostre sale qualche giorno fa, il Macbeth di Justin Kurzel si pone come ultima trasposizione cinematografica di una delle opere shakespeariane più amate e reinterpretate, grazie al sempre attuale tema della brama di potere e della follia sanguinaria di un uomo disposto a raggiungere la gloria. Allontanandosi dalla visione “autoriale” e personale di grandi registi quali Akira Kurosawa, Welles e Polanski, Kurzel propone una versione hollywoodiana più quadrata e semplificata, rischiando così di perdere quelle tante sfumature che hanno reso grande il testo originale. A mancare in questa moderna rivisitazione della tragedia è forse quella caratteristica principale che ha reso negli anni il personaggio di Macbeth così iconico e rappresentativo. Macbeth è un uomo “castrato” dalla propria follia, “unmanned in folly“, spogliato della radice genitale alla base di tutte le essenze maschili, come evidente nella scena del banchetto, apice di un calvario di incubi e ossessioni che assale il protagonista per tutta la parte centrale della tragedia e che lo rende tragicomica maschera di un destino ironico e beffardo. La goffa e quasi comica inadeguatezza a vestire i “borrowed robes” della realtà regale che pesa sul personaggio è rappresentata in maniera esemplare ne Il trono di sangue di Akira Kurosawa quando, in una conclusione completamente diversa da quella shakespeariana, il despota è costretto a schivare le frecce scoccate dagli archi dei suoi stessi soldati e alleati. E’ proprio la debolezza di questo personaggio, simile a quella biblica di Adamo, che viene sfruttata da Lady Macbeth, allegorica rappresentazione di una Eva tentata dal demonio, per spingere il suo coniuge a violare i limiti imposti e a ergersi come immagine del divino in terra. Questa mancanza essenziale, causata da una interpretazione di Michael Fassbender fin troppo virile e testosteronica, rende questa nuova trasposizione cinematografica priva della stessa carica ambigua e contraddittoria del lavoro originale, in una semplificazione che impoverisce e delude.

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Fondamentale è la scelta, alla base della concezione artistica di Kurosawa, di rappresentare attori e personaggi come le stilizzate maschere tipiche del teatro nō giapponese. I personaggi, ad esclusione del protagonista, sono privati delle proprie espressioni e dei propri gesti, costretti a muoversi come manichini e sonnambuli per tutto il trascorrere della vicenda. E’ proprio a fronte di questa “economia dei sentimenti” che la scena in cui Lady Macbeth cerca di lavare le proprie mani da un sangue che non va più via si carica di una potenza visiva disarmante, in quanto unico e autentico gesto che il personaggio compie nel corso della pellicola. Una scena che nel film di Kurzel, se pur impreziosita da una sempre ottima Marion Cotillard, non riesce a raggiungere i livelli di emotività conseguiti dal maestro giapponese. Il sangue, nel suo fondamentale significato di colpa e rimorso, riflette il cambiamento opposto che investe Macbeth e sua moglie. Il primo, da vittima di un senso di colpa che lo rende folle, diventa un valoroso combattente spoglio della paura di morire prima del tempo, mentre Lady Macbeth, da astuta deus ex machina di terrore, diventa zimbella della propria disperazione. La nevrosi che coinvolge la protagonista femminile è generata, in una prospettiva psicoanalitica, dalla frustrazione per la mancanza di appagamento di un desiderio. La coscienza morale di Lady Macbeth riesce a sostenere la sua brama fino a quando essa rimane sul piano della fantasia e della progettazione, ma è destinata a trasformarsi in uno stato di profondo turbamento quando essa si traduce in realtà.

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Ma se complessi e tormentati sono i due diabolici personaggi al centro della vicenda, ambigui sono anche le loro eroiche controparti. Il “good Macduff”, infatti, viene rappresentato non solo come angelo buono e simbolo di giustizia, ma anche come mistero anti-naturale, come “no woman born”. E per questo anche lui si configura come attore sul palcoscenico della malvagità, cercando di nascondere la sua vera anima, che rappresenta un ossimoro in quanto nata da una esperienza di morte (come poteva essere il parto cesareo nel tempo delle vicende narrate). Elemento che, nell’ essenzialità della narrazione, è praticamente assente nella trasposizione di Kurosawa (unica a essere solo ispirata, e non tratta, dal Macbeth shakespeariano). Il Macbeth di Kurzel, pur rendendo il dramma della guerra attraverso una estetica moderna e accattivante, che strizza un occhio al Refn di Valhalla Rising, è mancante di quella forza poetica che permeava per esempio la versione di Orson Welles, la sua ambientazione senza tempo, la trasposizione della tragedia in una dimensione tutta mentale, espressionista e stilizzata. Per questo, forse, il riferimento più forte in questa nuova rivisitazione è il più recente lavoro di Roman Polanski. Kurzel, nella sequenza finale, si sofferma, con la immagine del bambino che corre armato verso un futuro di sangue, su quella idea pessimistica della ciclicità del male che contraddistingue la pellicola del 1971, il presagio di una società che non riuscirà mai a liberarsi delle pulsioni più deleterie. Macbeth non più come uomo in carne e ossa, ma simbolica rappresentazione di un male inteso come forza destinata a sopravvivere al corpo.

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La pellicola di Kurzel, come quella di Polanski e Welles, si apre con le parole delle Fatal Sisters, le streghe autrici della profezia, e già esplicita la confusione delle categorie del bene e del male: “Foul is fair and fair is foul”, in una rappresentazione capovolta e distorta della realtà. E’ evidente anche in questo caso la mancanza di qualsivoglia guizzo poetico e artistico. Quelle che per Kurosawa erano racchiuse nella misteriosa parca greca, che per Welles erano entità oniriche e impalpabili e per Polanski orribili mostri dai lineamenti non riconoscibili, sono qui proposte con la semplice fisionomia di donne. Non solo, ma Kurzel rinuncia anche alla suggestiva immagine, presente invece nel testo originale, degli alberi del bosco di Birnam che, ormai estirpati delle proprie radici, si muovono verso il guerriero per ristabilire il sacro ordine naturale.

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Macbeth non è solo la tragedia del potere politico, ma soprattutto la tragedia del potere del tempo, contrastato in tutti modi dalla Lady guerriera in una trasognata ricerca di un eterno che non esiste. E quindi proprio con la scomparsa della moglie, il protagonista prende coscienza della realtà temporale di cui è vittima, capendo, attraverso una fatale epifania, che la morte esiste e non si può sfuggire al proprio crudele destino. La vicenda di Macbeth si rivela perciò un percorso che porta alla dolosa conclusione che la vita “is a tale told by an idiot”. La punizione maggiore per il protagonista si compie nel momento in cui diventa consapevole della dolorosa verità silenica, di essere nulla, che la sua stessa storia non è logos bensì una scatola vuota piena solo di rumore e di furore. La vita diventa quindi nihil negativum, esperienza inutile e insensata, che svuota ogni gesto della propria verità.