Il 27 Giugno arriva al cinema Papillon, il remake dell’indimenticabile cult del 1973 diretto da Franklin J. Schaffner e scritto da Dalton Trumbo. Ispirato al libro autobiografico di Henri Charrière pubblicato in Francia nel 1969, il film originale raccontava la prigionia dell’autore nella colonia penale dell’Isola del Diavolo, al largo della costa della Guyana francese.

Michael Noer è al timone del nuovo film distribuito nelle sale italiane da Eagle Pictures e presentato al Biografilm Festival 2018 dopo l’anteprima mondiale al Toronto Film Festival. La storia è più o meno la stessa, ma i protagonisti Steven McQueen e Dustin Hoffman sono stati rimpiazzati dai giovani Charlie Hunnam e Rami Malek.

Papillon: la trama del film

Charrière cerca di non essere coinvolto dal mondo criminale, ma nella Parigi degli anni ’30 sembra difficile sopravvivere da uomo onesto. Dopo aver passato la notte con la sua amata, egli viene arrestato all’improvviso con l’accusa di omicidio e viene portato in un carcere sudamericano circondato da una giungla ostile e opprimente. Durante la prigionia Charrière conosce un falsario milionario apparentemente fragile e indifeso, che però nasconde dei soldi e può finanziare una fuga da quell’inferno che non sembra lasciare alcuna speranza di una nuova vita. Tra i due si instaura un rapporto di protezione e complicità vicino ad un’amicizia sincera che li aiuta a sopravvivere alla sofferenza di quei luoghi e alla paura di non trovare un’alternativa alla fine definitiva.

Charlie Hunnam in Papillon

Papillon: la recensione del remake

Noer si concentra su Hunnam e Malek che, tuttavia, non brillano per le rispettive interpretazioni, ma funzionano per una buona alchimia che li rende complementari sulla scena. Papillon è un dramma ruvido e dinamico, in cui viene lasciato un discreto spazio all’azione, ma non si aggiunge nulla di nuovo rispetto al film originale. La regia è tradizionale e abbandona ogni forma di ambizione per raccontare una storia classica di prigionia e desiderio di evasione, già vista in molti altri drammi carcerari. La sceneggiatura non approfondisce l’ideologia e i sentimenti dei protagonisti, ma si concentra maggiormente sull’intrattenimento visivo e il movimento, coinvolgendo lo spettatore a livello fisico.

Il film funziona se si analizza il ritmo e la narrazione come un blockbuster che intrattiene, senza brillare per scelte stilistiche o una natura stratificata della storia. Tutto è facilmente prevedibile, anche se non ci sono momenti superflui o digressioni ingiustificate. Un film da vedere senza troppe aspettative che, tuttavia, regala un paio d’ore spensierate, giocando sulla formula canonica del biopic pop sull’amicizia stretta durante un’esperienza traumatica, come in una zona di guerra.