Il 26 giugno 1925, esattamente cento anni fa, veniva proiettato per la prima volta La febbre dell’oro: il capolavoro scritto, diretto, interpretato, prodotto e musicato dal genio di Charlie Chaplin.
Il 1925 è stato un anno fondamentale per la storia del cinema. Quello in cui sono usciti film memorabili, che hanno segnato un’epoca, quella del muto, come Le sette probabilità di Buster Keaton e Viva lo sport con Harold Lloyd nella sua ultima apparizione cinematografica.
Ma è stato ovviamente anche l’anno in cui è stato proiettato per la prima volta, proprio il 26 giugno di cento anno fa, uno dei capolavori indiscussi che ha cambiato per sempre il destino del cinematografo: La febbre dell’oro, scritto, diretto, interpretato, prodotto e musicato dal genio di Charlie Chaplin. Qui l’edizione speciale.
Cento anni de La febbre dell’oro di Chaplin
I fatti che ispirarono Chaplin sono quelli tragici della spedizione Donner (talvolta chiamata spedizione Donner-Reed) a metà del’Ottocento, che vide tragicamente protagonisti alcuni pionieri statunitensi che, nel corso della presidenza di James Knox Polk, partirono per la California, riuniti in una colonna di carri (mule train). Costretti al ritardo da una serie di disavventure, i membri della spedizione dovettero trascorrere l’inverno tra il 1846 e il 1847 accampati sulla Sierra Nevada.
Alcuni di loro ricorsero al cannibalismo per sopravvivere, nutrendosi dei colleghi nel frattempo morti per fame o malattia. D’altronde Chaplin sosteneva che la vita è una tragedia se vista da vicino, ma una commedia se vista da lontano.
E non deve quindi stupire che quegli avvenimenti agghiaccianti siano poi stati rielaborati con inventiva e intelligenza in un film capace di far ridere tantissimo ed emozionare. “Uno dei film belli che il cinema ci abbia mai dato, un’opera di poesia e quindi compiuta in sé, perfetta”, citando Michelangelo Antonioni.

Antonioni sosteneva inoltre che quel film fosse nato muto e che muto sarebbe dovuto rimanere, ma all’inizio degli anni Quaranta fu proprio Chaplin a decidere di rimetterci mano per renderlo appetibile anche al nuovo pubblico del sonoro, sostituendo le didascalie originali con un commento narrato dalla propria voce, modificando il montaggio e scorciando il finale.
Quando il film uscì nuovamente in sala nel maggio del 1942, in pochi compresero il senso di questa operazione che, a detta di molti, alterava l’originale equilibrio perfetto tra favola e follia. Eppure, c’è anche da sottolineare, che la colonna sonora riusciva a far emergere in maniera lampante quell’incrocio impossibile tra sceneggiato comico e documentario che è una caratteristica fondamentale se si vuole davvero cercare di comprendere il cinema di Chaplin.
Una lavorazione travagliata
Alla sua uscita in sala, nel giugno del 1925, La febbre dell’oro fu accompagnato sulla stampa americana da una ricca aneddotica: dalle tonnellate di gesso, sale e coriandoli impiegati per ricostruire l’Alaska in studio, alla sfarzosa prima proiezione mondiale con orchestra e ballerini al Chinese Theatre di Los Angeles.
Fu inoltre riportato che in alcune sale europee, i proiezionisti si trovarono costretti a riavvolgere la pellicola per accontentare un pubblico in delirio che chiedeva un bis della “danza dei panini”. Chaplin generalmente si sforzava di tenere distinto il lavoro dalla sua vita privata, ma durante questa produzione tutto si mescolò tristemente. Alle selezioni per la nuova prima attrice che avrebbe sostituito Edna Purviance, si presentò anche la sedicenne Lillita MacMurray già interprete dodicenne dell’angelo ne Il Monello.
Fu scritturata col nome d’arte di Lita Grey e in poco tempo avviò una relazione con lo stesso regista. A sei mesi dall’inizio della lavorazione del film, Lita rimase incinta di Chaplin il quale, per evitare lo scandalo, si trovò costretto a sposarla, cacciandosi in una relazione che, nonostante i due figli, Charles Jr. e Sidney, gli riservò molti dispiaceri per parecchi anni.
Il film incassò comunque cifre da capogiro e fu distribuito in più di duecento paesi. Nonostante tutto questo, è innegabile che, negli ultimi venti o trent’anni, l’apprezzamento critico per Chaplin sia un po’ sceso, mentre si è rafforzato quello per altri suoi colleghi come Keaton, riaccendendo una faida che si pensava terminata.
Forse, però, una parola definitiva su questa diatriba l’ha messa Woody Allen, grande estimatore di entrambi, spiegando che, secondo lui, Keaton era un genio ma anche un comico un po’ freddo, dalle gag scientificamente calcolate, senza emozione. Mentre invece il sentimentalismo era ciò che, nel bene e nel male, rendeva Chaplin unico. Una caratteristica che lo rendeva insuperabile e inimitabile. “Lo vorresti strozzare quando sbaglia il tono, ma quando funziona è magnifico”. Parola di Woody Allen.