(Foto di Barbara Ledda)
Già Orso d’argento per la miglior regia al Festival di Berlino 2009 con About Elly, il giovane regista iraniano Asghar Farhadi, con il suo ultimo lungometraggio Una separazione, si aggiudica un nuovo successo alla 61esima edizione della Berlinale, presieduta da Isabella Rossellini, guadagnando l’Orso d’oro per il Miglior Film, l’Orso d’Argento per la miglior interpretazione maschile e femminile, l’Ecumenical Jury Prize e il Peace Award College. Il film è inoltre candidato all’Oscar come Miglior film straniero.
Che si tratti di capolavoro non c’è dubbio, semplice, intenso e profondo, a tratti doloroso, Una separazione, va dritto al cuore dello spettatore stimolandone, al tempo stesso, lo spirito critico attraverso i numerosi spunti di riflessione che il regista ha abilmente insinuato in una trama semplice ma efficace. Il film racconta la storia di una separazione, quella di Nader (Peyman Moaadi) e Simin (Leila Hatami), dovuta al desiderio della donna di lasciare l’Iran per dare un futuro migliore alla figlia Termeh, e al rifiuto del marito di abbandonare il padre malato di Alzheimer. Apparentemente circoscritto alla realtà iraniana, il film si veste di universalità quando ci si rende conto che i drammi vissuti dai personaggi potrebbero toccare chiunque, in qualunque parte del mondo, perché sono drammi semplicemente umani, al di là degli stereotipati concetti di oriente e occidente.
“La particolarità di questo film – ci spiega l’attore Babak Karimi che interpreta il ruolo del giudice – è che non si fossilizza su questioni estremamente locali ma fa riferimento a un ceto urbano che ormai oggi è uguale dappertutto, io non vedo differenze tra un impiegato di banca a Teheran e un altro in Italia o in altri paesi del mondo. A parte una piccola percentuale di aspetti strettamente iraniani, le tematiche e le problematiche familiari trattate, sono ormai sempre più comuni, magari può cambiare la forma espressiva ma nella sostanza l’animo umano è uguale ovunque, ama e soffre allo stesso modo. Ho potuto constatare che dal Giappone a Roma, il pubblico ha avuto le stesse reazioni e si è riconosciuto in certe dinamiche”. Un film, dunque, che supera i confini geografici, che documenta ma non denuncia, nonostante la prima scena veda Simin spiegare al giudice che non può far crescere sua figlia in un paese come l’Iran. Ma se Simin vuole andare via, gli altri, in fondo, hanno il coraggio di restare, come Nader, e soprattutto come l’adolescente Termeh, (magistralmente interpretata da Sarina Farhadi, figlia del regista), intrappolata in un dramma lacerante, costretta a scegliere, suo malgrado, con quale dei due genitori andare a vivere dopo la loro separazione. Insomma, parlano i personaggi ma il regista non prende posizione, e questo, forse, rende il film meno politico di quanto possa sembrare.
Religione, giustizia, voglia di emancipazione. bugie in buona fede, sono temi che si alternano e si impongono nella trama, con crescente tensione emotiva per il pubblico, a cui il regista non fornisce risposte ma dona semplicemente un seme che lascia germogliare nella coscienza di ognuno. E forse è proprio questa la marcia in più di Farhadi, l’arma che gli permette di aggirare la censura, questo suo non schierarsi e fare in modo che sia lo spettatore a prendere posizione e a giudicare: “Una separazione– dice Babak – fa appello in qualche modo al senso di responsabilità dello spettatore, perché in fondo tutti facciamo parte di questa società e abbiamo una responsabilità civile su quello che sta avvenendo, anche se a volte pensiamo che non ci riguardi”. Farhadi non vuole dare risposte, al contrario, ribalta questo gioco in modo tale che, uscendo dalla sala, il pubblico si ponga delle domande. In merito alla censura, c’è da dire che il film ha avuto un blocco di dieci giorni non a causa dei contenuti, ma perché Farhadi, durante una premiazione per About Elly, ha espresso il desiderio di poter rivedere presto su quel palco i suoi colleghi Panahi, Makhmalbaf, Beyzai. Questo elenco non è piaciuto e il giorno dopo è arrivata la telefonata che bloccava il film. C’è stata tutta una lunga trattativa per riuscire a sbloccarlo ma dopo due settimane si è risolto tutto.
Tutti i protagonisti si ritroveranno in tribunale davanti a un giudice (Babak Karimi) che ha l’arduo e scomodo compito di dare una svolta ai loro drammi. Una matassa difficile da sbrogliare dal momento che tutti sembrano aver ragione, per un motivo o per un altro, anche lo stesso marito di Razieh, Hodjat (Shahab Hosseini) che perde più volte il controllo in aula, preso dalla disperazione e imbottito di psicofarmaci. Il giudice è consapevole di tutto questo e mentre sorseggia il suo thè pensieroso, vorrebbe forse essere altrove piuttosto che decidere delle vite altrui, perché dietro il burocrate c’è l’essere umano, spesso lacerato dal peso della responsabilità di cui è investito quotidianamente.
Scene di assoluto neorealismo, potremmo dire. E’ evidente infatti, quanto Farhadi abbia attinto alla lezione neorealistica italiana ma altrettanto evidente è la capacità di fonderla sapientemente con il suo background teatrale, riuscendo a realizzare un cinema diverso, fatto non solo di abilità tecnica con la camera a mano, ma anche di attenzione ai dettagli e alle prove degli attori, sulle quali il regista insiste particolarmente perché, come da lui stesso dichiarato in una recente intervista, è in questa fase che gli interpreti colgono le sfumature per entrare nel personaggio.
Quanto al neorealismo, Babak Karimi lo conosce bene, non solo per l’esperienza maturata come docente al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ma anche per essere figlio del poliedrico Nosrat Karimi, regista e attore, collaboratore di De Sica e Visconti: “Mio padre mi ha insegnato tutto, – dice l’attore – grazie a lui ho capito la differenza tra il mestiere e l’Arte. Un artista non puoi fermarlo, è un fiume in piena a cui non puoi impedire di creare, e mio padre, anche quando è stato interdetto, dopo la rivoluzione, ha continuato ad esprimersi in mille modi. La società iraniana post ’79, si è trovata un po’ nelle stesse condizioni di quella italiana, con una guerra, uno stravolgimento e una forte separazione sociale. Il neorealismo, che è un principio e non un genere, ha inciso profondamente sul cinema iraniano, gli ha conferito un aspetto più identitario ed è stato il veicolo che ha raccontato agli Iraniani cos’era l’Iran. Fondato sulla regola base che imponeva che tutti i personaggi fossero iraniani, ha formato un’intera generazione di cineasti e mio padre stesso è rimasto sempre molto fedele a questo principio, facendo sua una frase che un giorno De Sica gli disse: ‘Puoi mettere in scena qualsiasi storia purché la carta d’identità dei tuoi personaggi sia chiara’.
Dove sta andando l’Iran forse lo capiamo anche dagli sguardi tra Tarmeh e la piccola Somayeh (Kimia Hosseini), figlia di Razieh, nella sala d’attesa del tribunale, due volti che incarnano un dramma subito e non scelto ma in quel momento condiviso, sguardi profondi tra un’adolescente e una bambina, che la telecamera cattura e lo spettatore traduce secondo la propria sensibilità. Rappresentano il futuro e vorrebbero esserne protagoniste. E in attesa che le questioni politiche facciano il loro corso, Farhadi dimostra che l’arte può svolgere un ruolo sociale fondamentale: laddove la politica tende a puntare sulle divisioni, il compito dell’arte è trovare ciò che unisce.