Festival
VENEZIA 68: Conferenza Stampa di “Killer Joe” di William Friedkin
Killer Joe di William Friedkin è lo schiaffo irriverente che scuote il Festival di Venezia 68, una pellicola completa, estrema e grottesca che per molti sbaraglia il campo e si candida a vincere qualche premio importante. Si è tenuta stamattina la Conferenza Stampa alla presenza del regista, di parte del cast tecnico e di uno dei due protagonisti, Emile Hirsch (Into The Wild).
La proiezione per la stampa ha avuto grande successo ma la mia domanda per Tracy (Letts, sceneggiatore del film), questo film è stato preso da una piece teatrale da lei scritta, ma non assomiglia ad una piece, a cosa si è ispirato?
– Tracy Letts: Si il film è preso da una piece teatrale che ha avuto la sua prima premier nel 1998 ed è arrivata fino a qui, al Festival. Sicuramente Jim Thompson, autore di fiction noir, è stato una delle ispirazioni per questo film. Prima della piece ispirata ad una storia vera, quella di una famiglia in Florida in cui la mamma ed il figlio erano trafficanti di droga fino a che il figlio non scoprirà che la madre gli ha rubato della droga, fino al punto tale da volerla uccidere.
Riguardo alla vostra lunga e duratura collaborazione (tra Friedkin e Letts), da cosa è scaturita, com’è nata?
– William Friedkin: Vedo il mondo come lo vede Tracy, noi vediamo le stesse cose nella natura umana, cogliamo gli stessi aspetti divertenti, ma con una vena noir. Devo fare io una domanda, avete mai visto Casa Blanca? è stato tratto da una piece teatrale, intitolata “Everybody Comes to Rick’s”, ed il film americano è molto vicino a quella piece e molto altro è stato inventato mentre si faceva il film. Molti lungometraggi americani sono stati tratti da piece delle quali non se ne conosce neanche l’esistenza. I film vengono tratti da racconti, fumetti, videogames o giocattoli, spesso però un film che ha una sua fonte teatrale ha dei dialoghi veramente buoni, quello che mi ha attratto è stata la visione unica, nel mio caso sono il direttore d’orchestra, dirigo un’opera e mi prendo molto poco merito per questo lavoro, è già tutto lì, sul testo. Ovviamente il resto del merito è degli attori, se non avessi avuto questo cast, non sarebbe riuscito così il film.
– Tracy Letts: non avevo mai pensato agli altri miei testi possibili sceneggiature per film, ma considero Friedkin un grande del cinema americano e quando mi ha detto di volerlo trasporre, bhè non ho avuto dubbi sulla riuscita. Condividiamo la visione del mondo, non commentiamo i personaggi nel dettaglio ma quello che mi piace di Killer Joe sono proprio loro, i personaggi, sono animali e mi piacciono proprio per questo motivo, sono sulla stessa lunghezza d’onda di Friedkin. Condividiamo la medesima linea di pensiero.
Io volevo che Friedkin ci parlasse dell’umorismo nero del film. E come Hirsch si sia preparato ad interpretare questo personaggio, così diverso da altri da lui interpretati in precedenza.
– Emile Hirsch: per me recitare questo personaggio è stato fantastico, posso dire che due anni fa ho studiato e letto Amleto un paio di volte e mi sono innamorato di quella parte, non ho partecipato a quel progetto ma imparare quel personaggio è stato fondamentale per questo film, la sua natura dark mi ha aiutato per questo ruolo.
– William Friedkin: molto del merito va a Nicolas Chartier che ha prodotto tra le altre cose, anche The Hurt Locker della Bigelow e che ha visto il potenziale del film. Non c’è niente da fare, si percepisce quanto venga da un’estrazione culturale diversa. Io gli chiesi perché volesse un film del genere e lui mi rispose “semplicemente perchè voglio lavorare con te”, come avvenne per Kathrine Bigelow, che ora è al vertice della carriera, grazie a lui. Ha molte delle colpe e molti meriti.
– Nicolas Chartier: negli ultimi dieci anni ci si è interessati a Transformers, videogame, serie tv ed è difficile trovare storie con grandi attori che rimangano nel film, sì c’è l’azione ma è bello venire a Venezia e vedere un altro genere di grandi film. Volevo fare un altro film con lui da dopo l’Esorcista.
– William Friedkin: Dark humor… c’è già nel testo scritto. Molti potrebbero pensare che non è divertente come Totò o Benigni, loro sono divertenti ma i fratelli Marx ad esempio, erano molto divertenti, ma il lavoro di Tracy Letts è molto ilare con questo umorismo nero, a volte si sente un politico americano che fa un discorso e parla di quello che farà per il popolo ed io comincio a ridere perché è veramente divertente vedere come queste persone non comunichino con la realtà, i suoi personaggi non per forza sono onesti con il mondo ma noi vediamo chi sono realmente, mi capisce? Certo mi ha permesso di tradurre molti miei film come l’Esorcista, mi ha presentato a Fellini, permettendomi di lavorare con lui, mi sono sentito come un Apostolo. Mi ricordo che Fellini un giorno fece una pastasciutta nel suo ufficio usando una piccola pentola, e mi dissi che sarebbe stato stupendo lavorare con lui ma non mangiare una pasta schifosa. Era la migliore pasta che io abbia mai mangiato.
Probabilmente quella della coscia di pollo è destinata a diventare una delle scene clou del film, com’è stata immaginata e pensata?
Tracy Letts: innanzitutto non è una coscia di pollo ma una zampa. Fin dall’inizio… ehm, da dove è venuta fuori? Non lo so… mangio molto pollo, ecco, così! Mi ricordo 20 anni fa dovevo uscire dalla sala mentre facevano delle prove, ancora ora mi da fastidio quella scena.
Per il regista, chi trova di entusiasmante e promettente nel cinema americano, c’è un futuro? Prima citava la Bigelow.
– William Friedkin: Fellini, Antonioni, Wells, questi sono gli autori dei film che guardo in continuazione e devo dire che la tecnologia in America è progredita fino ad un punto tale che qualsiasi sogno del regista viene reso possibile, quando io chiedevo sequenze di azione, dovevamo farle fisicamente, ora sono realizzate completamente in digitale, come qualsiasi altra richiesta. Ho visto alcune scene di Paul Greengrass, le scene degli inseguimenti in auto, sono fantastiche ma grazie alle tecnologie ora è tutto possibile. Se dico che Darren Aronofsky è un grande regista pensate che me lo stia ingraziando?? Darren dove sei? Ti devo dieci dollari! A parte di scherzi, anche i Cohen sono due grandi registi, se non vi piacciono, via dalla sala, non potete stare qui! Welss secondo me ha fatto progredire l’arte cinematografica, come Antonioni e Fellini che mi han permesso di fare i film ed i loro film ispirano il cinema, i miei non sono lontanamente paragonabili a quelli. Scott è stato produttore del film ed ha tenuto assieme tutta la produzione, è molto difficile, poteva non essere d’accordo ma abbiamo continuato lo stesso, sempre.
– Scott Einbinder: il film è riuscito grazie al lavoro di William che è riuscito a far progredire qualsiasi attore, facendogli raggiungere delle vette mai toccate prima, arrivando a picchi di recitazione notevoli.
Emile, vuoi aggiungere qualcosa?
– Emile Hirsch: Devo dire che ho avuto un periodo fantastico durante le riprese con loro, parte del film è stata girata sul camper, era così spontaneo che ci ha fatto accettare in modo altrettanto spontaneo, pur dovendo calpestare territori recitativi pericolosi. Con il cast siamo stati un insieme, ogni giorno c’era qualcosa che mi si stampava sul cervello come qualcosa di unico, vedere Matthew McConaughey recitare è stato meraviglioso ed immaginare qualcun altro nella sua parte non è possibile per me e credo neanche per altri. Ho lavorato con grandi registi ma questa è stata un’esperienza, unica, William conosce moltissimo della recitazione, più di ogni latro regista con cui ho lavorato.
Ha citato molti film di registi colti che fanno continue allusioni, la sua scelta registica è quella di non allludere mai niente ma raccontare direttamente, come mai questa scelta?
– William Friedkin:: grazie per questa domanda, io ho fatto 2 film in 5 anni ed ambedue sono stati scritti da Letts, vedo molte sceneggiature, moltissima ma non vedo molto altro che vorrei rendere in un film ora, piuttosto starei a las vegas o dirigiere delle opere a firenze, per il maggio musicale, mi piace tantissimo fare la regia delle opere ma molte sceneggiature che leggo non mi attraggono, rendo le cose più esplicite ripsetto ad altre, in realtà le renfo più ambigue, se vi dovessi dire di cosa parla Killer Joe non saprei cosa rispondervi ma saprei dirvi cosa sono i personaggi, rappresentativi della natura umana. Per me questa è letteralmente una storia d’amore, come cenerentola, in questa storia cenerentola trova il principe azzurro ma è un killer a pagamento. In questo caso l’uomo dei sogni è un killer brizzolato… dico sul serio, m’è capitato davvero. Non cerco di fare delle cose esplicite, le rendo ambigue.
– Tracy Letts: io riconosco che Will sia un po’ pazzo e questo è affine al mio lavoro, ecco il trait d’union, è un tutt’uno con quello che scrivo e creo. Penso che una parte si vede Killer Joe, c’è un’ossessione esplorativa, penso sia un esploratore ecco.
Festival
Black Flies: l’incubo urbano di due anime che vagano in una cupa realtà | Recensione

La recensione di Black Flies – Newscinema.it
Abbiamo visto in anteprima Black Flies a Cannes 2023 ed ecco la nostra recensione.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, il lungometraggio diretto da Jean-Stéphane Sauvaire si sviluppa in 120 minuti e vede protagonisti Sean Penn nel ruolo di Gene Rutkovsky e Tye Sheridan in quello di Ollie Cross.
Basato sul romanzo di Shannon Burke I corpi neri (2008), segue la storia del giovane paramedico Ollie Cross, il quale accompagna la guardia medica notturna Gene Rutkovsky in giro per le violente strade di New York. Situazioni al limite della sopportazione umana e imprevisti dietro l’angolo, metteranno alla prova questi due professionali operatori medici, forgiando anche un legame che andrà oltre al normale rapporto tra colleghi.
Black Flies: un thriller compatto
Immediatamente esplosivo e compatto, il film inizia prosegue e si conclude seguendo una linea ansiogena che non lascia modo allo spettatore di concepirlo diversamente. Per tutta la sua durata, questo dramma dalle venature thriller investe intensamente tanto gli occhi quanto le corde emotive di chi guarda.
Ciò che ne esce è principalmente una connessione di anime differenti, capace di crescere ma anche incupirsi. Da un lato c’è un veterano, un mentore scheggiato da traumi ormai radicati nel profondo, mentre dall’altro troviamo la nuova recluta, il novellino che gli farà da partner, mosso da venerazione ed enorme stima nei confronti del capo medico.
Lavorare a testa bassa seguendo il classico percorso di formazione, studiando e imparando sul campo, questo è il destino che Ollie vorrebbe seguire, ma ahimè la vita a volte sceglie per te e lo stravolgimento di trama sarà all’ordine del giorno. Crude realtà, situazioni instabili, un’imprevista ondata di momenti stressanti. Il lungometraggio è capace di definire davvero bene le difficoltà di questo lavoro.

Black Flies – Newscinema.it
Sean Penn e Tye Sheridan strepitosi
Sean Penn e Tye Sheridan risultano perfettamente calati nei panni dei loro personaggi ma ancor più riescono a rendere credibile quel profondo feeling che contraddistingue il rapporto. Varie meteore vagano attorno ad essi, come Michael Pitt dal temperamento impulsivo, carismatico e giustamente odioso e un Mike Tyson, inutilmente sprecato.
Esplicito visivamente e coraggioso nelle tematiche, affronta depressione e sensi di colpa incessanti, strattonandoti con poca gentilezza all’interno di una ragnatela narrativa che si sviluppa tra disturbi interiori. Luci intense, sirene persistenti e un impianto sonoro determinante che sfocia in vette assordanti, riportano allo spettatore il profondo disagio di Ollie.
Un incubo urbano
Se il ritmo da un lato dona identità e definisce un clima solido e ben caratterizzato, il film non si dimentica di controbilanciare, mostrandoci la pace e la calma in un contesto più intimo, riservato, quando Ollie entra in questo limbo staccato dal caos lavorativo, distraendosi nel silenzio dell’amore, tra carezze e silenzi che compensino la frenesia.
Sean e Tye sotto la mano di Jean-Stéphane Sauvaire, trovano dunque lo spiraglio giusto, quella finestra accessibile che li rende le mosche nere del titolo, insetti sporchi che vagano su un mondo di cupe realtà.
Festival
Dall’alluvione in Emilia Romagna a Cannes 2023: il nostro viaggio impossibile on the road (VIDEO)

Dall’alluvione in Emilia Romagna a Cannes – Newscinema.it
Siamo partiti da Ravenna in macchina per raggiungere il Festival di Cannes 2023 e in questo vlog vi portiamo con noi in questa avventura.
Il 19 Maggio 2023 l’Emilia Romagna era nel pieno dell’alluvione e noi dovevamo partire da Ravenna per raggiungere il Festival di Cannes 2023. Ci siamo chiesti per giorni cosa fare perchè molte strade erano chiuse e noi avevamo programmato il viaggio in macchina che, in condizioni normali, si fa in circa sei ore e mezza.
Abbiamo deciso di tentare la sorte e provare in nome della passione per il cinema e per non perdere alcuni giorni di festival tra film, incontri con star e tanto altro. Così siamo partiti in tarda mattinata da Ravenna, cercando di raggiungere l’autostrada. E non è stato facile, come potete vedere dal vlog qui sotto.
Da un cinema trasformato in centro di acc0glienza a Cannes 2023
Siamo partiti in macchina la mattina del 19 Maggio 2023 per arrivare intorno a mezzanotte sulla Croisette dove poi siamo rimasti alcuni giorni per seguire il celebre Festival dedicato al cinema da ormai 76 anni. Il nostro viaggio è iniziato dal Cinema City di Ravenna, trasformato per l’emergenza alluvione in un centro di accoglienza per le persone evacuate e sfollate dai vari piccoli centri intorno alla città.
Un luogo che di solito regala emozioni ed è un rifugio dalla triste e stressante realtà quotidiana, questa volta è diventato un rifugio pratico e confortevole per coloro che avevano bisogno di un posto asciutto e sicuro dove poter sopravvivere e rimettere insieme i pezzi. Da lì abbiamo proseguito finendo in strade completamente sommerse, facendo marcia indietro più volte e provando altre vie per poter andare avanti.
Un viaggio infinito
Un’avventura ricca di imprevisti, pause forzate, traffico, pioggia ininterrotta…alla fine ce l’abbiamo fatta e sul canale YouTube MADROG CINEMA, come sui nostri profili Instagram e TikTok trovate varie foto e video della nostra esperienza a Cannes 76 tra impressioni sui film, incontri con star di Hollywood e tanto altro.
Se ti piacciono i video che trovi sul canale non dimenticare di iscriverti e attivare la campanella così sarai avvisato ogni volta che aggiungeremo un nuovo contenuto. Questo viaggio alla fine è andato bene, ma al posto delle sei ore e mezza previste normalmente per questo tratto ci abbiamo impiegato circa 12 ore. Però per il cinema questo e altro!
Festival
Cannes 76: Killers of the Flower Moon, la degenerazione del gangster movie scorsesiano

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)
Negli ultimi trent’anni, Martin Scorsese ha indagato con il suo cinema i meccanismi, le dinamiche, gli accordi e le procedure attraverso le quali il crimine funziona come uno Stato dentro lo Stato, regolato da leggi non basate sul diritto ma su un codice specifico che si impara solo crescendo in quel mondo. Anche Killers of the Flower Moon, in un modo o nell’altro, parla di questo.
Nella contea omonima dello Stato dove sono stati costretti a trasferirsi dal governo Usa, contrariamente alle altre tribù di nativi d’America, gli Osage sono diventati ricchissimi grazie ad un accordo che ha lasciato loro i diritti di sfruttamento del sottosuolo gonfio di petrolio. Questi nativi miliardari, scopriremo presto, non controllano però veramente il proprio patrimonio, che viene loro elargito con il contagocce dai «guardiani» bianchi sulla base di richieste motivate e documentate.
A Fairfax, la famiglia Hale fa il bello e il cattivo tempo, organizzando matrimoni di convenienza per accaparrarsi l’eredità degli Osage, ma anche imbastendo improvvisate frodi assicurative e depredando le tombe dei defunti. Insomma, dei ladri di polli la cui superbia, nonché la convinzione di essere antropologicamente superiori agli indigeni con cui convivono, li condurrà progressivamente, finanche inconsapevolmente (essendo gli assassini interessati solo al contingente, incapaci di avere contezza dell’insieme), allo sterminio di una popolazione. La banalità del male, declinata in tutta la sua rozzezza.

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)
Con il procedere della narrazione, man mano che gli obiettivi della famiglia diventano sempre più sanguinosi e spietati, Killers of the Flower Moon comincia ad assumere le sembianze di un film di Scorsese: gradualmente mette lo spettatore nelle condizioni di riconoscere i movimenti, le soluzioni di montaggio, le inquadrature tipiche del suo cinema. E proprio la riconoscibilità di quel modello renderà evidente la sostanziale differenza tra i gangster che abbiamo conosciuto lungo tutta la sua filmografia e questi gretti e dozzinali arraffoni: la differenza tra forza e potere (capacità dell’uomo di determinare la condotta di altri uomini) e il dominio (la malattia del potere, la malattia della forza).
Tanto il capitale che il potere, quanto più si accumulano senza strutturarsi socialmente, tanto più tendono a scadere in dominio, a porre le condizioni per una realtà umana che risulta generalmente aberrante, inconscia violazione, dilapidare cieco, tragica efferatezza. Killers of the Flowers Moon rappresenta in questo senso la “sclerotizzazione” del modello scorsesiano, imponendosi come potere malato che pretende la dipendenza dei sottoposti, attraverso cui percepiamo la ferocia di ogni singola uccisione o azione criminale: la sua deliberata crudeltà.
Retrospettivamente, quindi, riconosciamo la violenza manifesta e illegale della mafia di Goodfellas o anche di The Irishman come qualcosa di rudimentale, approssimativo, rispetto a quella ideologizzata, agguerrita, sostanzialmente razzista, che viene esercitata nel film dai gruppi dominanti a scapito della popolazione indigena. Diventa così fondamentale l’aspetto “virale” di questa nuova opera, la morte come patologia ereditaria, che diventa contagiosa e si diffonde come un’epidemia nel villaggio, decimandolo nel giro di qualche anno. Il dominio è, in questo senso, un fenomeno parassitario, incapace di vita autonoma ma costretto a infettare, sfruttando le energie e gli apparati delle vittime, per sopravvivere e propagarsi.
Viene meno, in questo caso, anche la mitizzazione del “codice”, quel legame ancestrale, umano, profondissimo e silenzioso, che spesso ha legato i criminali di Scorsese ai loro boss, che mai, in alcun modo, venivano messi in discussione o traditi (emblematico in questo è proprio The Irishman). Quel rispetto delle regole, quel senso di riconoscenza che faceva accettare ogni ordine impartito, anche quelli più feroci e dolorosi, in Killers of the Flower Moon è praticamente assente, perché assente è il concetto di famiglia, di clan. Il rapporto che lega Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) allo zio Ernest (Robert De Niro) non segue quelle logiche lì, perché a mancare è il senso di affiliazione e di appartenenza (che invece accomuna, in contrapposizione fortissima, la comunità Osage).
Killers of the Flower Moon | un affresco epico e corale
Da spettatori assistiamo all’esecuzione di un lunghissimo piano, tappa dopo tappa, lungo dieci anni. Lo osserviamo, come sempre avviene nei film di Scorsese, dal punto di vista degli aguzzini, di cui comprendiamo la mediocrità, la totale mancanza di capacità. Se DiCaprio è una semplice pedina degli eventi, abituato ad obbedire perché la ritiene la soluzione più facile e meno impegnativa, anche il “Re” (così viene chiamato dai suoi sudditi) De Niro si rivelerà, alla fine, troppo arrogante e sicuro di sé per rendersi conto dei tantissimi errori grossolanamente commessi, molto meno raffinato di quello che vorrebbe far credere.

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)
In questo affresco epico e corale, che segue il passaggio di un decennio, il cambiamento dei costumi, l’evoluzione delle relazioni e delle tecniche di sopraffazione, Scorsese trova anche il modo di raccontare un’altra forma di potere, quella che ha a che fare con la capacità di reagire e la capacità di modificare l’inerzia: il potere del narratore, dell’avveduto e attento affabulatore. Tra i sensi estremi di possibilità, potenzialità e capacità di compiere, realizzare, è significativa quella radice che in alcune lingue fa coincidere il potere col generare e col creare.
Il modo in cui Scorsese sceglie di raccontare le ultimissime battute della vicenda dei suoi personaggi, mettendosi peraltro in scena in prima persona, sta lì a dimostrarlo. Il potere, quello della macchina-cinema e del regista che la conduce, deve agire mutualmente maieutico, anche alle maggiori dimensioni, tenere conto degli altri (delle vittime vere e di quelle del meccanismo narrativo) per non diventare anch’esso dominante, considerare anche la responsabilità dell’agire nei riguardi del pubblico. Il potere (nel senso di “essere capace di”, “capacità di azione”) in sé non è affatto negativo: la sua carica positiva dipende dalla sua capacità di aprirsi a comunicare. Come fa, ad esempio, un cineasta alla soglia degli ottant’anni, consapevole della sua potenza, della sua influenza, ma sempre impegnato in un dialogo autentico con gli spettatori.
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