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Venezia 69: The Company you Keep di Robert Redford

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All’interno della sezione Fuori Concorso della 69° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è stato presentato il nuovo lavoro di Robert Redford nel duplice ruolo di attore e regista. Parliamo di The Company You Keep, film ispirato al romanzo di Neil Gordon, adattato per il grande schermo da Lem DobbsJim Grant (Robert Redford) è un avvocato e un affettuoso padre single, rimasto vedovo da appena un anno per la prematura scomparsa della moglie in seguito ad un incidente stradale. Quando Sharon Solarz (Susan Sarandon) viene arrestata dall’FBI dopo ben trent’anni di latitanza, i media e l’opinione pubblica riaccendono i riflettori sugli attentati e le rivolte verificatesi durante il movimento di protesta contro la guerra della fine degli anni sessanta e inizio anni settanta. Indagando sulla vicenda, il giovane giornalista Ben Shepard (Shia LeBeouf) scopre che anche Grant è coinvolto nella storia, poichè all’epoca apparteneva al gruppo di pacifisti radicali manifestanti e da molti anni era ricercato per omicidio. Inizia così una vera e propria caccia all’uomo, in cui piano piano si uniscono i tasselli del puzzle e i protagonisti vogliono disperatamente arrivare alla verità.

Prodotto dalla Voltage Pictures e dalla Wildwood Enterprises, The Company You Keep è un thriller con spunti di cospirazione e mistero e l’impegno civile e politico che contraddistingue i film di Redford è protagonista anche in quest’occasione, ma più in secondo piano rispetto al precedente Leoni per Agnelli. Sorvolando su alcune scelte troppo azzardate che non si raccordano con l’età del protagonista, come l’essere padre di una bambina di undici anni a oltre 70 anni, il jogging nel parco e gli inseguimenti nei boschi, che stonano un po’ con un Redford sicuramente in ottima forma ma non più adatto ad un ruolo action alla Bruce Willis, il film tuttavia intrattiene con un buon ritmo, ricco di catene di segreti, relazioni e colpi di scena convincenti e coinvolgenti. La sceneggiatura di Dobbs richiedeva un ampio cast di supporto, ma per questo l’attore e regista si è davvero superato, coinvolgendo nel progetto alcuni suoi colleghi di livello impareggiabile, come Susan Sarandon, Nick Nolte, Chris Cooper, Richard Jenkins, Stanley Tucci, Julie Christie. Un cast stellare anche se le battute da dire sono relativamente brevi.

La suspence è tenuta viva nonostante non siano numerose le scene di azione, e forse poteva essere limitata la durata complessiva del film che supera i 120 minuti. Redford racconta una storia di pura finzione sullo sfondo di un avvenimento importante della storia americana, soffermandosi sull’ideologia e sottolineando la differenza tra i giovani di oggi, addormentati e assetati di successo, a differenza dei ‘sessantottini’ che si battevano per un’idea e una fede in qualcosa che avrebbe potuto cambiare il mondo. I giovani del film come il reporter Shepard e il personaggio interpretato da Brit Marling appaiono indecisi sul loro futuro o pronti a tutto per ottenere quello che sognano e vogliono dalla vita, mettendo da parte la passione e la morale etica che spinge a delle scelte piuttosto che ad altre. Il gioco del gatto col topo che ricorda film del passato come Il Fuggitivo con Harrison Ford o Ipotesi di Reato con Mel Gibson e Julia Roberts, in cui il protagonista deve scappare, ma nello stesso tempo raccogliere gli indizi necessari per dimostrare la propria innocenza, reale o presunta. “I segreti sono una cosa pericolosa, Ben. Pensiamo tutti di volerli conoscere. Ma se ne hai mai avuto uno, allora saprai non solo conoscere qualcosa su un’altra persona, ma anche scoprire qualcosa su noi stessi” – Jim Grant.

 

Date un’occhiata al nostro omaggio a Robert Redford per la nuova rubrica FuoriScena realizzata in collaborazione con l’artista Giovanni Manna, cliccate l’immagine qui sotto:

 

 

 

Enhanced by Zemanta

Il cinema e la scrittura sono le compagne di viaggio di cui non posso fare a meno. Quando sono in sala, si spengono le luci e il proiettore inizia a girare, sono nella mia dimensione :)! Discepola dell' indimenticabile Nora Ephron, tra i miei registi preferiti posso menzionare Steven Spielberg, Tim Burton, Ferzan Ozpetek, Quentin Tarantino, Hitchcock e Robert Zemeckis. Oltre il cinema, l'altra mia droga? Le serie tv, lo ammetto!

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Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta

Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.

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La recensione di Joker: Folie à Deux (Foto: warner bros.) – Newscinema.it

2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).

A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.

Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.

Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.

Joker: Folie à deux, un musical a metà

Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.

Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?

La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.

Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).

Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.

Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.

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Venezia 81 | Horizon: Capitolo 2, prosegue l’epica e ambiziosa saga di Kevin Costner

Il secondo capitolo della “American saga” ideata, diretta e prodotta da Kevin Costner prosegue le tante storie aperte nel primo capitolo. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

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La recensione di Horizon 2 (Foto: ufficio stampa) – Newscinema.it

Venezia 81 | Horizon: Capitolo 2, prosegue l’epica e ambiziosa saga di Kevin Costner
3.1 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

È finalmente chiaro, con il secondo capitolo di questa “American saga”, in cui cominciano ad avere una direzione più precisa molte delle traiettorie tracciate nel primo, che l’epopea western di Kevin Costner è fatta soprattutto di attese, di informazioni e accadimenti dosati in tempi lunghissimi, di personaggi che vengono solamente annunciati, declinati al futuro in un racconto che nessuno sa mai se effettivamente arriverà al punto di farceli conoscere davvero, in maniera approfondita ed esaustiva.

Ci sono infatti luoghi e situazioni destinati all’oscurità, a cominciare dalla stessa Horizon del titolo, città che rimane ancora un miraggio, anche per lo spettatore. Un vicolo cieco, una chimera pubblicizzata da un volantino che la evoca con tragica ironia.

Ci sono linee della narrazione che necessitano di essere ricomposte e altre che vengono drasticamente interrotte (quella dei cacciatori di taglie di Jeff Fahey, così come quella del tenente Sam Worthington). È un teatro di fantasmi quello di Costner e non è un caso che questo secondo episodio si apra con le immagini dell’uomo da cui dipende tutta la saga, quello che ha spalancato il sogno di una nuova città da costruire dal nulla, ovvero il mister Pickering di Giovanni Ribisi.

Lo vediamo nell’incipit e poi lo ritroviamo nell’ultima scena, come anticipazione del prossimo capitolo, come uno spettro che trascina con sé oscuri presagi. Simbolo dell’arroganza del capitale o sfacciato genio che gioca con il destino degli uomini?

È una delle tante domande che rimangono inevase anche in questo nuovo film, interessato specialmente a indagare i meccanismi che regolano la vita in comunità e le relazioni del singolo con il gruppo. Chiaramente – e non è una sorpresa per chi ha visto il primo capitolo – lo fa con logiche che sono quelle del cinema più classico (più vecchio, anche, potremmo dire), con quei codici morali ormai totalmente superati e con quella concezione un po’ riduttiva delle minoranze e della femminilità.

Horizon | il secondo capitolo del sogno di Costner

Quello che veramente sta a cuore a Kevin Costner è raccontare lo spazio, la vastità di un continente che è ostile innanzitutto per le sue dimensioni, in cui anche semplicemente attraversarlo diventa un’avventura angosciante, straziante, faticosa.

Nulla in Horizon è piacevole o di sollievo: non lo sono i paesaggi, con cui i protagonisti hanno invece una relazione problematica, e non lo sono le altre persone, a cui spesso si è legati esclusivamente da ragioni utilitaristiche. E anche quando c’è di mezzo l’amore, l’affetto, questo è innanzitutto una limitazione, qualcosa nel nome del quale bisogna fare dei sacrifici dolorosi.

Un freno che la realtà pone alle proprie ambizioni e non uno strumento di liberazione ed emancipazione. Non c’è nessuna legge di giustizia in queste distesa di terra, ma solo la legge della convenienza, la necessità di calcolare cosa è meglio fare e con chi è meglio legare per avere più possibilità di sopravvivenza.

“Giusto” e “sbagliato” sono concetti che nascono con l’organizzazione sociale, con la sedentarietà, e che non esistono ancora quando ci si muove in carovana. L’etica, la morale, è volubile come il cielo che sovrasta i carri di questi pionieri ed è qualcosa di cui si può discutere solamente quando ci si è “sistemati”, quando si ha un tetto sopra la propria testa e una minima sicurezza del proprio futuro.

È quindi ancora più chiaro in questo secondo capitolo che a Costner non servono troppi “villain”, nemici da affrontare a colpi di pistola, perché ogni cosa è già una lotta: la convivenza forzata con degli sconosciuti, il viaggio in territori ignoti che non sono ancora stati plasmati dall’uomo per risultare accoglienti, abitabili. Rimane però, ancora più intensa, dopo la conclusione di questo secondo capitolo, la sensazione di trovarsi davanti a un progetto più adatto alla televisione che al cinema.

E in qualche modo Costner, che questo Horizon lo ha sempre immaginato come un’epopea cinematografica, pensata per il buio della sala, gioca ironicamente su questa aspettativa tradita, alimentando la bulimia del pubblico sempre più ben disposto verso la serialità, con un trailer di “ciò che verrà” nei prossimi episodi che, esattamente come accadeva alla fine del primo capitolo, promette sempre di più di quello che si è già visto, rimanda l’azione e la spettacolarità a un secondo momento. Come a dire: avrete quello che volete.

Gli inseguimenti, gli assalti, i duelli, le sparatorie. Ma anche questa, forse, come il volantino di Horizon, sembra una promessa destinata a rimanere tale, una pubblicità ironicamente ingannevole nei confronti di un pubblico che – il risultato al botteghino lo dimostra – chiede altro. Un gioco di rimandi anche con la serie tv (Yellowstone) che lo ha fatto tornare popolare e che ha abbondato per dedicarsi al Cinema con la “C” maiuscola. Che assomiglia sempre di più ad altro.

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Venezia 81: Takeshi Kitano fa ridere il festival con il nuovo Broken Rage

Takeshi Kitano torna a riflettere sul cinema e su sé stesso con Broken Rage, divertissement teorico che annulla definitivamente la separazione tra Kitano regista, autore, comico e performer.

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Venezia 81: Takeshi Kitano fa ridere il festival con il nuovo Broken Rage
4 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il nuovo Broken Rage di Takeshi Kitano è una lezione di poco più di un’ora su come violenza e umorismo possano essere linguaggi che seguono la stessa grammatica cinematografica e sul modo in cui una stessa storia possa essere raccontata con i codici del primo o del secondo. Due film in uno: uno yakuza movie appena abbozzato, senile, di una semplicità e rapidità che sembrano quelle dell’ultimo Eastwood, e poi quello stesso film parodiato, riproposto quasi frame-by-frame ma in chiave comica.

Uno specchio che rivela cosa serve (e cosa no) per far funzionare il dramma e la commedia. A cosa si può rinunciare e cosa invece necessariamente deve essere lì affinché il meccanismo narrativo giri senza incepparsi. Quale caratterizzazione debba avere il protagonista quando lo caliamo in contesti differenti: carismatico anti-eroe se si vuole raccontare una storia di redenzione o, nel caso della commedia, eterno sconfitto con cui empatizzare, gangster per sua natura “fantozziano”, tapino costretto ad obbedire al padrone di turno, di cui è un miserabile e ridicolo sottoposto.

Un film che, in ogni caso, sintetizza una carriera che dalla metà in poi si è fatta parodia consapevole di sé stessa e ha accettato la comicità come elemento insostituibile, anche quando si raccontano storie che non la prevederebbero (si pensi al recente Kubi).

D’altronde anche nella prima metà di Broken Rage, che teoricamente dovrebbe essere quella più “seria” – la storia che lo spettatore deve conoscere per poi comprendere la relativa parodia – è impossibile, in alcuni casi, trattenere la risata, a dimostrazione di una irrisolvibile commistione tra i due codici, quello del dramma e della commedia, e di una maschera, quella di Kitano, che oramai è impossibile associare esclusivamente all’autore di Hana-Bi, Sonatine, Violent Cop, senza considerare il mattatore televisivo, lo showman compiaciuto anche del suo ruolo di giullare.

Broken Rage | il ritorno del Kitano comico

Con una messa in scena ridotta ai minimi termini, Kitano elimina tutto ciò che non è gag e mette a nudo il gesto comico, che, come ci ha spiegato lungo tutta la sua filmografia, non è così differente dal gesto violento. Entrambi, infatti, nascono dalla volontà di imporre qualcosa su qualcuno: il proprio potere, il proprio dominio, sia attraverso l’afflizione di dolore fisico sul corpo altrui, sia attraverso “forzature” e stratagemmi di coercizione (narrativa, per lo meno) che inducono la risata quasi istantaneamente, come meccanismo di reazione psico-fisico impossibile da controllare e da tenere a bada.

Nei due casi, quindi, si tratta sempre di una manipolazione, di una prepotenza che ha effetti spesso molto simili: lo shock, lo spaesamento, la confusione. Violenza e umorismo funzionano meglio quando inaspettati, ingiustificati, come manifestazioni parossistiche che colgono alla sprovvista.

Deliberatamente Kitano, specialmente nella seconda metà, quella comica, si disinteressa della coerenza logica e della coerenza cinematografica, esibendo, senza nasconderli, “errori” di montaggio, concedendosi soluzioni narrative talmente sciatte e sbrigative che in altri film non sarebbero accettabili e che qui invece – e la cosa viene subito fatta comprendere allo spettatore – risultano tollerabili perché tutto è sacrificato sull’altare della gag, dell’umorismo come obiettivo ultimo a cui tendere.

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