Festival
29° TFF: Roberto Herlitzka ed i gemelli De Serio presentano “Sette Opere di Misericordia”
“Sette Opere di Misericordia” è l’opera prima dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio. È richiesto dai Festival di tutto il mondo dove sta raccogliendo numerosi Premi. Portato in anteprima nazionale nella sezione “Festa Mobile – Figure nel Paesaggio”, all’interno del 29° TFF, è stato presentato in conferenza stampa alla presenza dei due fratelli registi, del protagonista Roberto Herlitzka, della protagonista Olimpia Melinte ed del produttore Alessandro Borrelli.
Il film ha già avuto una circolazione mondiale ed ha vinto un numero considerevole di Premi, in Italia ed all’estero. È arrivata adesso la notizia che ha vinto il Gran Premio della Giuria a Grenoble. Mi chiedo, come mai piace così tanto? Vi siete chiesti il perché?
Gianluca De Serio: La cosa che ci fa piacere è che in realtà piace tanto anche al pubblico, non so, il film piace perché è un lungometraggio sicuramente poco italiano, per cui forse avere un film italiano in concorso ad un festival internazionale che si distacca dal linguaggio comune nostrano piace anche al pubblico.
Massimiliano De Serio: Anche ieri ad esempio l’abbiamo presentato a Madrid, ed una signora dal pubblico, alla domanda se fosse piaciuto s’è alzata dicendo che sì, bello ma è stata “una mazzata”. Il nostro intento era questo, il film ha una sua vita dopo che la proiezione è finita. Si sviluppano le varie interpretazioni e le letture che lo spettatore possa dargli. Noi infatti non ci rivolgiamo al pubblico in quanto massa ma al singolo spettatore, con la sua esperienza, la sua capacità di interpretazione.
Entrate a far parte con questo lungometraggio della categoria dei registi fratelli, come affrontate il lavoro insieme?
Massimiliano De Serio: In realtà entriamo nella categoria di nicchia che sono i gemelli! Devo dire, a parte di scherzi, che è abbastanza complicato lavorare insieme ma allo stesso semplicissimo. Complicato perché abbiamo le stesse idee quindi diventa troppo facile ma un film quando è troppo facile risulta banale. Fattivamente cerchia modi dividerci il lavoro, il che viene abbastanza naturale.
Gianluca De Serio: Il lavoro del cinema alla fine è collettivo, bisogna fare con una collettività generale ed il fatto di affrontarlo già dall’inizio in due può essere formante per questa cosa.
Il film è piuttosto duro, piace ma è duro ed è anche molto maturo, tira fuori cose che generalmente vengono suscitate in persone con età piuttosto avanzata. Volevo sapere il vostro rapporto con la religione e quanto l’arte, ambiente dalla quale provenite ha influenzato il film.
Gianluca De Serio: Noi non siamo religiosi, non siamo neanche battezzati, in quanto i nostri genitori ci hanno lasciato la libertà di scelta, di ricerca. Questo sicuramente ha influenzato il film che non risulta religioso ma piuttosto alla ricerca di qualcosa, di una spiritualità propria. Le sette opere di misericordia sono relativizzate al massimo e riportate in un’ottica prettamente umana che non significa essere de spiritualizzate. La religione cattolica ha fatto suoi questi principi e noi abbiamo voluto riportarlo all’origine, quella umana.
Massimiliano De Serio: Al di là degli studi artistici, uno degli spunti di ispirazione è proprio un’opera di Caravaggio, appunto le sette opere di misericordia. Quello che ci ha colpito della sua arte era il realismo nel rappresentare i personaggi dei bassifondi della Napoli di quel tempo caricati di una forte allegoria cristiana, ma in questo caso c’è, nel film come nell’arte di Caravaggio, questa luce quasi materica, corporea. La storia dell’arte quindi è assolutamente presente come iconografia classica dell’arte stessa. Herlitzka per noi potrebbe essere un fiammingo, il suo volto ed il suo corpo per noi sono un paesaggio sterminato da esplorare, ovviamente con le dovute cautele. Quindi l’arte era in loro, noi l’abbiamo solo esplorata. Ovviamente poi l’arte moderna della quale ci occupiamo io e mio fratello va al di là della nostra scrittura cinematografica. Aggiungendo una cosa sulla sacralità, se vogliamo parlare del mestiere dell’artista è abbastanza vicino a qualcosa di sacro perché ha l’aspirazione di parlare di qualcosa di invisibile, il tentativo di realizzazione assomiglia ai nostri tentativi di ricerca sul lato spirituale
Per i due protagonisti, come è stato entrare in questi due personaggi?
Olimpia Melinte: Due elementi mi hanno aiutata come lo stare due mesi a Torino, da sola, e dall’altra parte il fatto che con Roberto non c’era una comunicazione verbale approfondita in quanto lui parla poco inglese ed io poco italiano. In questo modo la comunicazione si è basata sul non verbale, questo mi ha aiutata ad entrare nella parte.
Roberto Herlitzka: Non posso dire anche io che la mia vita sia simile a quella del personaggio ma è stato relativamente difficile ma oramai sono abituato a pensarmi diverso da come sono, anche se in questo caso lo sforzo è stato estremo, molto impegnativo ed intenso. Comunque credo che i registi abbiano saputo veramente aiutarci in questo, condurci fino in fondo al personaggio. Tra l’altro devo dire che è proprio vero quello che ha detto olimpia è stato realmente utile sullo schermo per riuscire a comunicare solo con gli occhi, con i gesti, esattamente quello che i due personaggi dovevano esprimere. Io comunque inglese lo parlo un pochino ma non capisco una parola, lei l’italiano lo capisce ma non lo parla ed eccoci qua.
Volevo sapere dai lei, nei due gemelli, quali peculiarità riconosce di altri registi con i quali ha lavorato?
Roberto Herlitzka: Devo dire che non è che posso studiare tutti i miei rapporti con i vari registi, posso ricordarmi di quelli con cui ho lavorato meglio, certamente Bellocchio è in cima. Con loro due mi sono trovato benissimo, intanto perché sono giovani e come tali hanno una gran voglia di fare ed in questo caso dell’arte ed è esattamente quello che mi prefiggo da una vita io stesso, ecco che abbiamo trovato dei linguaggi comuni con cui parlare. Riguardo alla sequenza, noto che quella più bella è quella in cui io NON CI SONO, quindi grazie (ironizza)
E per i registi, come è nata la sequenza notturna nella quale Luminita prende la palla illuminata per far dormire il bambino?
Gianluca De Serio: Sì, la sequenza notturna è proprio quella in cui la protagonista cerca di far smettere di piangere il bambino. Per me e mio fratello è una sorta di fulcro stilistico del film, che racchiude tutti e due i paradossi del film, la luce ed il buio. Nel buio riusciamo a vedere perfettamente i personaggi e nella luce accecante, con cui si conclude il film non riusciamo a vedere, accecati dalla luce stessa. L’oggetto con il quale la protagonista cerca di calmare il bambino, apparentemente inutile, è in realtà fondamentale perché questo discorso estetico sulla luce trova proprio il suo compimento nella luce emessa da quel giocattolo. Tutta la sfumatura di colori diversi racchiusa in questo oggetto.
Massimiliano De Serio: Tra l’altro posso dire un piccolo inciso, il bambino è stato veramente bravo, calmandosi realmente giocando con quella palla luminosa e questa luce ha realmente calmato il bambino, è stata buona la prima.
Il produttore, sentiamo cosa ha da dire su questo film.
Alessandro Borrelli: È stato un lavoro di gruppo, va un grande ringraziamento a tutti quelli che ci hanno aiutato, dalla Piemonte Film Commission a Rai Cinema. Poi il coraggio del nostro distributore che dovrà affrontare la sfida del pubblico non più da festival ma da sala, abituato a cose leggermente diverse ma io sono comunque fiducioso. Speriamo che da gennaio in poi, quando uscirà in sala, verrà accolto bene dalla gente.
Siete riusciti a rappresentare un mondo in cui l’alienazione riguarda tutti, non solo gli stranieri ma anche chi abita nella propria patria. Come avete lavorato? Avete fatto delle ricerche sul campo sull’immigrazione e sull’alienazione stessa degli italiani?
Massimiliano De Serio: La baraccopoli di cui parlavi esiste realmente, l’abbiamo in parte ricostruita. Esiste a poche centinaia di metri da dove abitiamo noi qui a Torino e quindi la conosciamo bene in quanto ci abbiamo fatto anche volontariato in passato. Diciamo che il tema dell’immigrazione ci accompagna fin dall’inizio del nostro lavoro, non tanto come contenuto ma potremmo riconoscerlo come pretesto per i nostri film. Per noi parlare di un film in cui si parla di immigrati, ci pare normale fare dei film su questi nuovi italiani. Ci piace creare dei personaggi che abbiano a che fare con il nostro universo, l’universo della realtà che viviamo.
Gianluca De Serio: Sono personaggi che rinunciano ad ogni desiderio materialistico, riscoprono nella lotta per la sopravvivenza, questo contatto umano che forse avevano nascosto nella loro esistenza. Questo permette al film di elevarsi da un discorso di cronaca riguardo l’immigrazione, è solo una metafora, un punto di partenza. Il film non vuole essere un dato di fatto dall’inizio alla fine, ecco che quelli che all’inizio sono clichè, piano piano scompaiono per diventare qualcosa di più interno all’animo umano.
Festival
Berlinale 73: Inside, la recensione | Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

La recensione di Inside – Foto: Newscinema.it
Presentato al 73° Festival di Berlino, Inside conta 105’ di durata e fa parte della sezione Panorama.
Regia e soggetto sono a cura di Vasilis Katsoupis mentre la sceneggiatura di Inside è firmata da Ben Hopkins. Il protagonista assoluto di questo thriller dalle sfumature comedy-drama è Willem Dafoe e verrà distribuito nelle sale statunitensi il 10 marzo 2023, attendiamo la conferma italiana.
La trama di Inside
Il ladro d’arte Nemo rimane intrappolato in un attico a Times Square durante un furto che finisce male. Con il passare dei giorni il suo stato mentale comincia a peggiorare e dovendo combattere con la fame e la sete, dovrà escogitare un piano per trovare una via di fuga, per restare lucido e per adattarsi alle disagianti condizioni, ormai inevitabili.
Il one man show di Willem Dafoe
Ci sono film che abbracciano il proprio protagonista cucendogli addosso un ruolo perfetto e imbastendo intorno a lui un ambiente congeniale che punta al risultato sperato. Mai come in questo caso la definizione può essere più appropriata, questo film è Willem Dafoe.
Un uomo imprigionato senza via di fuga che dopo averle provate tutte inizia a testare i propri limiti, finendo per immaginare soluzioni e fantasticare tra folli visioni. Il ladro lo sappiamo, è una figura negativa che solitamente dovremmo identificare come antagonista ma che qui trova un risvolto opposto.
Nemo è un uomo che non avverti mai come ostile, ti trovi ad empatizzare totalmente con lui e quasi ti dimentichi che si meriti di essere imprigionato lì e magari anche scoperto, in quanto giunto in quella situazione per qualcosa che sostanzialmente non andava fatto.

Willem Dafoe in Inside – Foto: Berlinale 73
Un incubo a occhi aperti tra quattro mura
Freddo glaciale o caldo torrido, mancanza di una fonte d’acqua, istinto di sopravvivenza e di adattamento, di certo quello che a prima vista pare essere un attico pieno di comfort, diventa in un attimo un ambiente avverso dove la tecnologia, da cui ormai dipendiamo, da utile si fa nemica.
Questa interessantissima opera filmica è capace di diversificare la propria direzione, partendo da qualcosa di inizialmente molto concreto e arrivando a compiere un viaggio più concettuale. Già capace di affascinare al suo primo lungometraggio dunque, il regista greco pare avere le idee ben chiare sulla direzione verso cui portare il proprio cinema.
Un po’ come il connazionale Yorgos Lanthimos, percorre una strada che parte dal realismo e finisce nella criptica isola del sottotesto ermetico, quello in cui è necessario un lavoro mentale da parte dello spettatore per essere elaborato al meglio.
Inno all’arte
L’arte e la sua realizzazione, l’inventiva, la ricerca di soluzioni che stimolano la creatività sfociando in qualcosa di ricercato, di contemporaneo, di artisticamente riflessivo. Muffa, sudore, rabbia, rassegnazione, tanti sono gli elementi simbolici o le sensazioni percepite, che portano ad un unica domanda: fin dove si può spingere un uomo?
Un essere umano in trappola, messo a dura prova dalla situazione che involontariamente si trova a vivere, sopraffatto dal proprio istinto, troverà il modo di far pace con sé stesso e con l’ambiente circostante in un equilibrio quasi spirituale. Molto silenzioso Dafoe gioca con sé stesso, recita per sottrazione, talvolta interagendo soltanto con la mimica facciale, altre con gli oggetti presenti in scena o qua e là parlando un divertente italiano.

Inside film – Foto: Newscinema.it
Non mancano infatti passaggi simpatici, dalla Macarena agli easter egg brillanti disseminati in ogni dove, che grazie ad un ottimo lavoro di montaggio esaltano ancor di più il ritmo e il talento dell’attore, chiamato a reggere sulle proprie spalle l’intero lungometraggio.
In conclusione ci troviamo immersi in un mondo nascosto tra condizioni critiche poco rassicuranti e ostacoli decisamente ingombranti, che pulsa però quasi inconsapevolmente di innata genialità artistica e si fa metafora di quello che Nemo sta pian piano realizzando, come fosse un inception di strutture a matrioska. Un inno all’arte dunque, alle menti creative e al prepotente ma essenziale concetto “Non c’è creazione senza distruzione”.
Festival
Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)
Suzume, il nuovo film d’animazione del regista di Your Name si rivela un’opera avvincente, intrigante e sorprendente, presentata in concorso alla 73esima edizione della Berlinale.
È stato presentato a Berlino il nuovo film d’animazione del regista giapponese Makoto Shinkai, che nel 2016, con Your Name, aveva commosso milioni di spettatori in tutto il mondo, fino a guadagnarsi la stima che si riserva ai nuovi maestri e, in alcuni casi, persino lusinghieri paragoni con Hayao Miyazaki.
Il suo nuovo Suzume è un’opera avvincente, intrigante, sconcertante: un film catastrofico sci-fi spettacolare che si fa saggio sulla natura e la politica, attraversato da elementi comici folli e stravaganti che in alcuni momenti ne deviano la narrazione e ne cambiano drasticamente il tono.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)
Già in Your Name, il regista aveva inventato un disastro – un enorme impatto meteorico – quasi sicuramente ispirato al terremoto del Tōhoku del 2011. Con Suzume, adesso, fa esplicito riferimento alle scosse e allo tsunami del 3/11 nel prologo del film, quando la protagonista si ritrova in quella che sembra ESSERE una dimensione parallela in cui regna una devastazione surreale, con case ridotte in macerie e barche spettrali incagliate dopo misteriosi naufragi.
Il resto del film si svolge circa un decennio dopo, a partire da Kyushu (purtroppo, isola che è stata colpita da un terremoto di magnitudo 5,6 appena sei settimane prima dell’uscita del film, dando ulteriore rilevanza e attualità al suo messaggio). Una mattina, in sella alla sua bicicletta, Suzume incrocia un bel giovane che cammina nella direzione opposta, e con uno stratagemma visivo preso in prestito dal cinema live action, il tempo rallenta e la regia cattura la scintilla che scatta romantica tra loro.
Lo straniero si chiama Souta Manakata e si presenta a Suzume come un “Closer”, ovvero qualcuno incaricato di chiudere una serie di portali mistici per evitare che gigantesche creatura fuggano attraverso essi e continuino a causare disastri in tutto il Paese (vermi in computer grafica che rivelano la loro pericolosità e la loro alterità anche come corpi estranei rispetto al gentile tratto bidimensionale del film). Souta, però, all’inizio del viaggio si trasforma in una sedia per bambini a tre gambe: un’idea stravagante per un compagno di viaggio che si rivela però sorprendentemente efficace.
Il film, infatti, riesce a rendere Souta molto più espressivo nella sua semplice forma geometrica di sedia rispetto a quando, da ragazzo in carne ed ossa, non può che essere il generico oggetto d’amore della protagonista. E anche in questo rifiuto di un sentimentalismo molto vecchio e abusato sta la modernità del film di Shinkai, che stavolta decide di dare un tocco contemporaneo e giovanile al suo film collaborando nuovamente con la rock band Radwimps, affiancata qui dalla strumentazione del compositore Kazuma Jinnouchi, e incorporando nella narrazione la tecnologia moderna e l’utilizzo dei social network. Lo stesso design del gatto Daijin quasi certamente ricorderà ai fan più giovani quello cattivo dello show Puella Magi Madoka Magica.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)
Strutturato come un road movie, Suzume invita il pubblico ad un tour del Giappone, sorvolando sui punti di riferimento familiari, come il Monte Fuji, e concentrandosi invece sui luoghi che rappresentano il patrimonio in via di estinzione del Paese del Sol Levante. Ma è la direzione dell’animazione di Kenichi Tsuchiya, che si impone con i suoi dettagli sbalorditivi, che rendono Suzume un oggetto di misteriosa bellezza nei suoi cieli notturni e negli skyline pittorici delle diverse città. La protagonista entra in connessione con il pubblico come un’adolescente in movimento e in subbuglio, comandando il percorso emotivo della narrazione.
“Il peso dei sentimenti delle persone è ciò che soffoca la Terra”, dice Souta nel film: ed è questo il manifesto di Shinkai su come la vita interiore e la topografia giapponese siano strettamente dipendenti l’una dall’altra. E proprio come nel film The Garden of Words, in cui aveva già spiegato la sua tesi emotiva attraverso la poesia Man’yōshū, Suzume è uno sforzo che cerca di restituire la complessità di un mondo interiore con umorismo e pathos, legandolo alle sorti della Terra, del mondo che sta fuori.
Festival
Berlinale 73 | Infinity Pool, Mia Goth: “Non mi sottraggo mai davanti a questo tipo di film”

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)
Mia Goth e Alexander Skarsgard hanno rivelato di essersi divertiti molto a realizzare Infinity Pool, il thriller “provocatorio” e “viscerale” del regista canadese Brandon Cronenberg, presentato in anteprima europea alla 73esima Berlinale.
È stato presentato in anteprima europea alla 73esima edizione della Berlinale l’atteso Infinity Pool, nuovo controverso thriller diretto da Brandon Cronenberg. Il regista ne ha parlato insieme ai protagonisti Mia Goth e Alexander Skarsgard in una conferenza stampa con i giornalisti, approfondendo le tematiche del film e affrontando le controversie legate ad esso.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)
L’attrice britannica, oggi famosa specialmente per essere protagonista e co-creatrice della trilogia horror di Ti West cominciata con X – A Sexy Horror Story, ha detto di aver apprezzato molto l’aspetto “provocatorio” del suo personaggio. “Non mi sottraggo mai a questo tipo di materiale e a questo tipo di film”, ha detto ai giornalisti.
“Trovo che all’interno di questo tipo di storie ci siano personaggi davvero impegnativi che mi permettono di esplorare sfaccettature di me stessa che non mi sento molto a mio agio a rivelare al di fuori di un set. Gabi è un personaggio molto vario e dinamico. All’inizio è una donna piuttosto dolce e senza pretese e alla fine del film la vediamo invece completamente selvaggia e scardinata, solo primordiale”, ha spiegato Goth.
Il personaggio di Skarsgard, invece, è uno scrittore in difficoltà, burattino di un gioco perverso e pericoloso. “Si capisce già nel suo primo incontro con Gabi che non gli ci vuole molto per seguirla come un cane affamato”, ha affermato l’attore. “È stato abbastanza divertente giocarci con quanto fosse credulone e quanto fosse facile manipolarlo. Volevo uscire dalla mia testa… buttarmi lì dentro, in questo mondo, e vedere cosa sarebbe successo. È un film così viscerale, in cui succedono tante cose”.
I due personaggi, però, sono uno lo specchio dell’altro, come suggerito da Goth. “Penso che Gabi possa ritrovare molto di se stessa in James. Ed è anche per via di questo riconoscimento che le è così facile rivoltarlo come un calzino. Perché hanno lo stesso background culturale, lo stesso status sociale e, cosa più importante, hanno entrambi una vita di insuccessi e di fallimenti. Hanno modi diversi di affrontare questa condizione, ma da dentro penso siano molto più simili di quanto sembri”, ha spiegato l’attrice.
Berlinale 73 | Brandon Cronenberg:“Un prossimo film tratto da Ballard”
Il film è in parte ispirato, per ammissione dello stesso regista, al romanzo di Super-Cannes di J. G. Ballard, pur non trattandosi di una vera e propria trasposizione fedele o ufficiale. “Adoro Ballard e in passato ho pensato spesso di adattare il suo libro per il cinema, ancora prima di realizzare Infinity Pool.
Quindi sicuramente c’è un po’ di questa influenza nel film. Non è la stessa cosa, ma sicuramente il mood è quello. Siamo attualmente in fase di trattativa con chi detiene i diritti di Super-Cannes per riuscire a realizzare un adattamento cinematografico nel prossimo futuro. Mi piacerebbe molto farlo”, ha annunciato il regista.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)
Di Infinity Pool si è parlato, e si continuerà a parlare, specialmente per le sue scene più esplicite e disturbanti. “Non trovo particolarmente utile avere degli intimacy coordinators (figure che garantiscono il benessere di attori e attrici che partecipano a scene di sesso o ad altre scene intime in un film) sul set”, ha dichiarato Mia Goth.
“E probabilmente questo è dovuto al fatto che ho sempre lavorato con registi fantastici: sensibili, gentili e professionali. Come appunto Brandon Cronenberg. Spesso è meglio girare la scena senza perdere troppo tempo a discutere di cosa si può o non si può fare. È una situazione che crea più imbarazzo che altro. Se c’è fiducia tra gli attori e con il regista, basta quello”.
Cronenberg ha poi scherzato sulle notizie apparse sui giornali relative a degli spettatori, nelle diverse presentazioni del film in giro per il mondo, che hanno abbandonato la sala dopo essersi sentiti male davanti alle scene più disturbanti: “In realtà, poche persone hanno lasciato la sala durante queste proiezioni. Devo dire che siamo un po’ delusi. Forse non abbiamo fatto un buon lavoro. Quando abbiamo mostrato il film ai nostri amici, pochissimi hanno riso davanti all’umorismo molto perverso della storia. E pensavamo di essere spacciati. Invece il pubblico sembra averlo compreso”.
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