“La pittura non si fa per arredare gli appartamenti, ma è uno strumento di guerra“. Con questa frase di Pablo Picasso inizia il documentario Ai WeiWei: The Fake Case, nuovo progetto di Andreas Johnsen che torna a raccontare la difficile esistenza dell’artista cinese in perenne lotta con il governo dittatoriale ed intransigente del suo Paese. Dopo Ai WeiWei: Never Sorry di Alison Klayman, realizzato nel 2012, al Biografilm la sezione Concorso Internazionale ospita questo nuovo documentario che analizza il caso “fake” che è nato intorno alla Fake Company, società per cui Ai WeiWei è stato accusato, tra le altre cose, di una ingente evasione fiscale oltre i 2 milioni di dollari.
La sua aperta e costante opposizione al governo cinese gli ha reso la vita un vero inferno, ma il suo grido di protesta ha fatto il giro del mondo, raccogliendo intorno all’artista migliaia di sostenitori che sperano in un cambiamento politico e sociale radicale. Johnsen riprende la storia dove era stata interrotta nel primo progetto della Klayman, dopo la sua carcerazione durata 80 giorni, sulla quale Ai WeiWei ha deciso di realizzare una originale e interessante installazione che è stata esposta poi alla Biennale di Venezia lo scorso anno. Piccole sculture curate nei minimi dettagli riproducono la sua cella, le guardie che lo controllano continuamente, gli interrogatori, e altri momenti fondamentali della sua detenzione, per mostrare al mondo quello che ha subito per la sua lotta quotidiana contro l’oppressione. “Seguono solo regole ed ordini, non hanno alcun sentimento morale” afferma Ai WeiWei parlando dei personaggi del governo che lo tengono sempre sotto controllo e cercano di destabilizzare la sua persona e la sua famiglia. “La nostra famiglia vive su un’onda gigantesca. Quest’onda è la società cinese e noi andiamo su e giù” aggiunge la madre dell’artista, che ribadisce la sua paura per l’incolumità del figlio, così duro e diretto nei suoi messaggi scritti e verbali, soprattutto sul web.
Si definisce un politico, piuttosto che un artista politico, ma le sue idee sovversive lo hanno messo in una posizione difficile. Deve vivere in continua allerta e, ancora oggi, nonostante la fine della libertà vigilata, il governo non gli ha restituito il passaporto, limitando così la sua libertà vera. Pechino è diventata il suo incubo costante, ma egli è fermamente convinto e determinato nel portare avanti la sua battaglia. Come afferma nel documentario: “Dire quello che penso mi fa sentire vivo, se smettessi di fare quello che faccio mi sentirei come se fossi già morto“. Ai WeiWei: The Fake Case ricostruisce perfettamente gli eventi, dando ampio spazio anche al sentimento e ai contrasti di una vita intrisa di arte, amore, ma disturbata dall’odio, dal rancore, e da una dittatura di idee. Tra interviste, filmati rubati con smartphone e Ipad dallo stesso artista e riprese attuali del regista inglese, il documentario mantiene un ritmo incalzante e coinvolgente che appassiona il pubblico e gli permette di conoscere la verità su una pagina difficile della storia della Cina, spesso al centro della cronaca e dell’informazione per la sua crudezza e freddezza.
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