Dov’è il mio corpo? (J’ai perdu mon corps) è il primo sorprendente lungometraggio animato di Jérémy Clapin, basato sul romanzo Happy Hand di Guillaume Laurant. Nominato all’Oscar e vincitore di due César, nelle categorie “Miglior film d’animazione” e “Migliore musica”, è stato distribuito in Italia da Netflix nel novembre 2019.
Una mano mozzata si risveglia in un frigorifero di quello che sembra essere un ospedale parigino e, dopo un primo momento di stupore e smarrimento, deciderà di fuggire per ricongiungersi con il resto del corpo. Rifiutando la separazione, intraprenderà un vero e proprio viaggio passando dai tetti alla metropolitana, dagli stagni alle fogne, lottando con topi, cani e piccioni pur di raggiungere il braccio cui appartiene. Dall’altra parte della città abbiamo Naoufel, un orfano magrebino che lavora distrattamente come fattorino per una pizzeria. Messi da parte i sogni dell’infanzia, disilluso e disinteressato per una vita che sembra avergli riservato solo dolore, troverà conforto e speranza in una conversazione con una giovane bibliotecaria: Gabrielle.
Dov’è il mio corpo è dunque la storia di due viaggi destinati a incrociarsi che, per quanto diversi, sono accomunati dalla ricerca di un ricongiungimento a una parte smarrita di sé stessi. La narrazione su diverse linee temporali e l’utilizzo di flashback in bianco e nero sull’infanzia di Naoufel permettono di conoscere per gradi il protagonista, fino ad arrivare alla rivelazione del peso enorme che porta nel cuore. In soli 80 minuti saremo portati a vivere ogni tipo di emozione, restando stupiti di come una sola mano possa essere così comunicativa. Non farete caso all’assenza di dialoghi in numerose scene grazie a delle animazioni semplici ma efficaci che vi catapulteranno nella fredda vita urbana di periferia: dura e senza pietà.
I colori asciutti e malinconici della città, accompagnati da un’incantevole colonna sonora, aumenteranno a dismisura la carica emotiva delle vicende narrate. Sarà dunque impossibile non empatizzare con quel fattorino un po’ imbranato che da bambino registrava qualsiasi suono o rumore. Una tecnica tutta sua per comprendere il mondo e sulla quale la pellicola spinge particolarmente, facendolo diventare perno dell’intero dramma. Quello stesso registratore è diventato oggi per il Naoufel il simbolo dei ricordi e dei rimorsi che è tempo di lasciare andare.
Dov’è il mio corpo è inevitabilmente indirizzato a un pubblico adulto, trattando temi universali ed essendo un manifesto dell’amore per sé stessi nonostante le avversità. Una mano alla ricerca del braccio dalla quale è stata brutalmente recisa ci insegna a riflettere sulla perdita e sul dolore che la separazione comporta, spingendoci a sfidare il destino giorno dopo giorno per la nostra felicità.