Festival
Festival di Roma: A walk in the park, la conferenza stampa
Amos Poe, Brian Fass, Adam Davids, Loretta Mugnai, Jett Strauss e Michael Laurence, cast tecnico e artistico di A walk in the park, presentato stamane nella sezione CineMAXXI del Festival di Roma, hanno incontrato la stampa. Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 Poe è fra i massimi esponenti del cinema indipendente americano. Oggi ci ha presentato il suo primo documentario, il cui protagonista è Brian Fass, un uomo sofferente, pronto ad aprire il suo cuore e a mostrare i suoi ricordi per ricostruire la sua triste storia familiare. Fass ha curato anche la fotografia del docufilm.
Mario Sesti:”Per certi versi il linguaggio del tuo documentario è usato in maniera romanzata e fantastica. In che maniera questo film è una svolta rispetto ai suoi film precedenti?”
Amos Poe:”Si è un film diverso rispetto ai miei lavori precedenti. E’ la mia prima volta con il documentario. L’ho fatto su richiesta, ma via via l’ho sentito davvero mio. L’idea alla base, come ha detto Godard, è quella di esplorare un’opera di fantasia e finzione come il documentario. Per ciò che riguarda il linguaggio che ho tentato di esplorare, ho cercato di utilizzare quello del cinema digitale. L’argomento riguarda invece la differenza fra verità e finzione, un modo per esplorare, da parte mia, la realtà. Brian, nella situazione che esprime, è diventato il veicolo per esplorare questo tema. Io e Jett ci siamo poi messi al pc per giocare con la qualità plastica del digitale. Tutto ciò si avvicina molto alla concezione dell’immagine tipica del XXI secolo.”
D:”In passato si è lasciato ispirare dalla Divina Commedia. Ci sono le stesse influenze nel suo ultimo lavoro?”
A.Poe:” Sì, ci sono. Da Dante si può trarre qualsiasi ispirazione. Loretta (scenografa n.d.r.) mi ha fatto apprezzare David Foster Wallce, che ha dedicato in un suo libro un capitolo alla figura del depresso. Beh forse anche lui è stato ispirato da Dante.”
M.Sesti:”Quanto di ciò che abbiamo visto era progettato e quanto è nato in itinere?”
Jett Strauss:”Eravamo molto liberi nel nostro lavoro. Io ho fatto il montaggio, Brian aveva il suo materiale trentennale. Inizialmente volevamo realizzare un dramma radiofonico, poi abbiamo deciso di aggiungere la forza dell’immagine alle parole.”
Michael Laurence:”Quando sono arrivato sul set, ho trovato un’infrastruttura già pronta. A me non si chiedeva di essere Brian, dovevo essere un suo avatar, un doppio immaginario. Si è trattato di un momento liberatorio, non mi sentivo appesantito da questa responsabilità interpretativa. In alcune scene Amos ci ha chiesto di seguire bene il testo, in altri casi abbiamo lavorato insieme sull’interpretazione. Loretta ha decorato l’appartamento per renderlo una cosa astratta. In tutto abbiamo impiegato 3 giorni di lavorazione.”
Brian Fass:”Questo è un progetto del quale abbiamo parlato molto con Amos. Sono arrivato ad un momento nella mia vita in cui avevo bisogno di un cambiamento. Dare questo materiale, farmi intervistare, ha significato per me trasformarmi come persona. Sono giunto ad un nuovo passaggio nella mia evoluzione personale. E’ un film che mi ha toccato profondamente e spero che anche chi lo vedrà, possa sentirsi così. Alla fine della prima proiezione a New York, qualcuno si è avvicinato a me, ringraziandomi per aver avuto il coraggio di raccontare una storia come la mia. Ho ricevuto molto sostegno da parte di Adam, invece non ho avuto il sostegno familiare per superare momenti molto difficili. Mio padre e mio fratello, dopo la morte di mia madre, mi hanno allontanato da loro e io penso che tutto sommato si siano arresi: hanno rinunciato ad aiutarmi ed anche io ho rinunciato a fartlo. Poi qualcuno è arrivato nella mia vita, mi ha aiutato ad uscire dal mio mondo, ad andare a passeggiare a Central Park. Talvolta non possiamo farcela da soli. Mi auguro che il pubblico possa capire e dalle reazioni delle persone con cui ho parlato penso proprio di sì.”
M.Sesti:”C’è una ricerca formale decisiva per il fim. Loretta e Jett parlateci del lavoro sul film.”
Loretta Mugnai:“C’è stata un’elaborazione preventiva, per cercare di capire come potesse essere vivere sempre all’interno di una stanza. Io ho cercato di creare qualcosa che fosse surreale, perché la realtà nella storia è già molto presente. Con Amos c’è grande affinità visiva, perché lui ha vissuto la New York degli anni’70 e ’80 e io la Firenze degli stessi anni, che sono molto simili”
M.Sesti:”Quanto tempo è stato necessario per ultimare il montaggio? Sulla collaborazione con Amos puoi dirci qualcosa Jett?
J.Strauss:”Abbiamo lavorato per un anno prima di iniziare le riprese. Le immagini sono arrivate più tardi, perché inizialmente pensavamo ad un radio dramma. Poi abbiamo iniziato a pensare alle immagini da affiancare al suono. E’ possibile aggiungere più livelli, più strati ad una storia. Abbiamo usato lo split screen per mostrare un lato diverso di quello di cui parlava Brian, per dare un’ottica diversa delle cose raccontate, oggettivizzando ciò che accadeva.”
A.Poe:”Per ottenere il montaggio che avete visto, ci siamo ispirati alla tensione visiva. Nella tradizione del XX secolo si faceva un montaggio sequenziale, lo split screen invece ha la funzione di mostrare la tensione che si genera fra sinistra e destra dello schermo. La musicista (Hayley Moss n.d.r.) ha avuto il compito di creare un ritmo costante che legasse i capitoli in cui è diviso il film. Anche il testo ha avuto un ruolo fondamentale nel film.”
Adam Davids:”Il film ha avuto un impatto fondamentale su chi, come me, ha vissuto la storia di Brian. Quando siamo arrivati a questo film e abbiamo iniziato, questa esperienza creativa, come ha detto Amos, ci siamo resi conto che c’erano più livelli in questa storia. E’ stato impegnativo mettere tutto insieme. Jett ha fatto un lavoro incredibile col montaggio, riuscendo a mostrare che cosa è successo realmente nella famiglia di Brian. Sono orgoglioso di aver potuto lavorare con questo gruppo.”
A.Poe:” Questo è un film molto americano e newyorkese. Lo spirito americano è evidente quindi. Abbiamo appena avuto un’elezione presidenziale incredibile e ci siamo liberati da Romney una volta per tutte.”
Festival
Berlinale 73: Inside, la recensione | Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

La recensione di Inside – Foto: Newscinema.it
Presentato al 73° Festival di Berlino, Inside conta 105’ di durata e fa parte della sezione Panorama.
Regia e soggetto sono a cura di Vasilis Katsoupis mentre la sceneggiatura di Inside è firmata da Ben Hopkins. Il protagonista assoluto di questo thriller dalle sfumature comedy-drama è Willem Dafoe e verrà distribuito nelle sale statunitensi il 10 marzo 2023, attendiamo la conferma italiana.
La trama di Inside
Il ladro d’arte Nemo rimane intrappolato in un attico a Times Square durante un furto che finisce male. Con il passare dei giorni il suo stato mentale comincia a peggiorare e dovendo combattere con la fame e la sete, dovrà escogitare un piano per trovare una via di fuga, per restare lucido e per adattarsi alle disagianti condizioni, ormai inevitabili.
Il one man show di Willem Dafoe
Ci sono film che abbracciano il proprio protagonista cucendogli addosso un ruolo perfetto e imbastendo intorno a lui un ambiente congeniale che punta al risultato sperato. Mai come in questo caso la definizione può essere più appropriata, questo film è Willem Dafoe.
Un uomo imprigionato senza via di fuga che dopo averle provate tutte inizia a testare i propri limiti, finendo per immaginare soluzioni e fantasticare tra folli visioni. Il ladro lo sappiamo, è una figura negativa che solitamente dovremmo identificare come antagonista ma che qui trova un risvolto opposto.
Nemo è un uomo che non avverti mai come ostile, ti trovi ad empatizzare totalmente con lui e quasi ti dimentichi che si meriti di essere imprigionato lì e magari anche scoperto, in quanto giunto in quella situazione per qualcosa che sostanzialmente non andava fatto.

Willem Dafoe in Inside – Foto: Berlinale 73
Un incubo a occhi aperti tra quattro mura
Freddo glaciale o caldo torrido, mancanza di una fonte d’acqua, istinto di sopravvivenza e di adattamento, di certo quello che a prima vista pare essere un attico pieno di comfort, diventa in un attimo un ambiente avverso dove la tecnologia, da cui ormai dipendiamo, da utile si fa nemica.
Questa interessantissima opera filmica è capace di diversificare la propria direzione, partendo da qualcosa di inizialmente molto concreto e arrivando a compiere un viaggio più concettuale. Già capace di affascinare al suo primo lungometraggio dunque, il regista greco pare avere le idee ben chiare sulla direzione verso cui portare il proprio cinema.
Un po’ come il connazionale Yorgos Lanthimos, percorre una strada che parte dal realismo e finisce nella criptica isola del sottotesto ermetico, quello in cui è necessario un lavoro mentale da parte dello spettatore per essere elaborato al meglio.
Inno all’arte
L’arte e la sua realizzazione, l’inventiva, la ricerca di soluzioni che stimolano la creatività sfociando in qualcosa di ricercato, di contemporaneo, di artisticamente riflessivo. Muffa, sudore, rabbia, rassegnazione, tanti sono gli elementi simbolici o le sensazioni percepite, che portano ad un unica domanda: fin dove si può spingere un uomo?
Un essere umano in trappola, messo a dura prova dalla situazione che involontariamente si trova a vivere, sopraffatto dal proprio istinto, troverà il modo di far pace con sé stesso e con l’ambiente circostante in un equilibrio quasi spirituale. Molto silenzioso Dafoe gioca con sé stesso, recita per sottrazione, talvolta interagendo soltanto con la mimica facciale, altre con gli oggetti presenti in scena o qua e là parlando un divertente italiano.

Inside film – Foto: Newscinema.it
Non mancano infatti passaggi simpatici, dalla Macarena agli easter egg brillanti disseminati in ogni dove, che grazie ad un ottimo lavoro di montaggio esaltano ancor di più il ritmo e il talento dell’attore, chiamato a reggere sulle proprie spalle l’intero lungometraggio.
In conclusione ci troviamo immersi in un mondo nascosto tra condizioni critiche poco rassicuranti e ostacoli decisamente ingombranti, che pulsa però quasi inconsapevolmente di innata genialità artistica e si fa metafora di quello che Nemo sta pian piano realizzando, come fosse un inception di strutture a matrioska. Un inno all’arte dunque, alle menti creative e al prepotente ma essenziale concetto “Non c’è creazione senza distruzione”.
Festival
Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)
Suzume, il nuovo film d’animazione del regista di Your Name si rivela un’opera avvincente, intrigante e sorprendente, presentata in concorso alla 73esima edizione della Berlinale.
È stato presentato a Berlino il nuovo film d’animazione del regista giapponese Makoto Shinkai, che nel 2016, con Your Name, aveva commosso milioni di spettatori in tutto il mondo, fino a guadagnarsi la stima che si riserva ai nuovi maestri e, in alcuni casi, persino lusinghieri paragoni con Hayao Miyazaki.
Il suo nuovo Suzume è un’opera avvincente, intrigante, sconcertante: un film catastrofico sci-fi spettacolare che si fa saggio sulla natura e la politica, attraversato da elementi comici folli e stravaganti che in alcuni momenti ne deviano la narrazione e ne cambiano drasticamente il tono.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)
Già in Your Name, il regista aveva inventato un disastro – un enorme impatto meteorico – quasi sicuramente ispirato al terremoto del Tōhoku del 2011. Con Suzume, adesso, fa esplicito riferimento alle scosse e allo tsunami del 3/11 nel prologo del film, quando la protagonista si ritrova in quella che sembra ESSERE una dimensione parallela in cui regna una devastazione surreale, con case ridotte in macerie e barche spettrali incagliate dopo misteriosi naufragi.
Il resto del film si svolge circa un decennio dopo, a partire da Kyushu (purtroppo, isola che è stata colpita da un terremoto di magnitudo 5,6 appena sei settimane prima dell’uscita del film, dando ulteriore rilevanza e attualità al suo messaggio). Una mattina, in sella alla sua bicicletta, Suzume incrocia un bel giovane che cammina nella direzione opposta, e con uno stratagemma visivo preso in prestito dal cinema live action, il tempo rallenta e la regia cattura la scintilla che scatta romantica tra loro.
Lo straniero si chiama Souta Manakata e si presenta a Suzume come un “Closer”, ovvero qualcuno incaricato di chiudere una serie di portali mistici per evitare che gigantesche creatura fuggano attraverso essi e continuino a causare disastri in tutto il Paese (vermi in computer grafica che rivelano la loro pericolosità e la loro alterità anche come corpi estranei rispetto al gentile tratto bidimensionale del film). Souta, però, all’inizio del viaggio si trasforma in una sedia per bambini a tre gambe: un’idea stravagante per un compagno di viaggio che si rivela però sorprendentemente efficace.
Il film, infatti, riesce a rendere Souta molto più espressivo nella sua semplice forma geometrica di sedia rispetto a quando, da ragazzo in carne ed ossa, non può che essere il generico oggetto d’amore della protagonista. E anche in questo rifiuto di un sentimentalismo molto vecchio e abusato sta la modernità del film di Shinkai, che stavolta decide di dare un tocco contemporaneo e giovanile al suo film collaborando nuovamente con la rock band Radwimps, affiancata qui dalla strumentazione del compositore Kazuma Jinnouchi, e incorporando nella narrazione la tecnologia moderna e l’utilizzo dei social network. Lo stesso design del gatto Daijin quasi certamente ricorderà ai fan più giovani quello cattivo dello show Puella Magi Madoka Magica.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)
Strutturato come un road movie, Suzume invita il pubblico ad un tour del Giappone, sorvolando sui punti di riferimento familiari, come il Monte Fuji, e concentrandosi invece sui luoghi che rappresentano il patrimonio in via di estinzione del Paese del Sol Levante. Ma è la direzione dell’animazione di Kenichi Tsuchiya, che si impone con i suoi dettagli sbalorditivi, che rendono Suzume un oggetto di misteriosa bellezza nei suoi cieli notturni e negli skyline pittorici delle diverse città. La protagonista entra in connessione con il pubblico come un’adolescente in movimento e in subbuglio, comandando il percorso emotivo della narrazione.
“Il peso dei sentimenti delle persone è ciò che soffoca la Terra”, dice Souta nel film: ed è questo il manifesto di Shinkai su come la vita interiore e la topografia giapponese siano strettamente dipendenti l’una dall’altra. E proprio come nel film The Garden of Words, in cui aveva già spiegato la sua tesi emotiva attraverso la poesia Man’yōshū, Suzume è uno sforzo che cerca di restituire la complessità di un mondo interiore con umorismo e pathos, legandolo alle sorti della Terra, del mondo che sta fuori.
Festival
Berlinale 73 | Infinity Pool, Mia Goth: “Non mi sottraggo mai davanti a questo tipo di film”

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)
Mia Goth e Alexander Skarsgard hanno rivelato di essersi divertiti molto a realizzare Infinity Pool, il thriller “provocatorio” e “viscerale” del regista canadese Brandon Cronenberg, presentato in anteprima europea alla 73esima Berlinale.
È stato presentato in anteprima europea alla 73esima edizione della Berlinale l’atteso Infinity Pool, nuovo controverso thriller diretto da Brandon Cronenberg. Il regista ne ha parlato insieme ai protagonisti Mia Goth e Alexander Skarsgard in una conferenza stampa con i giornalisti, approfondendo le tematiche del film e affrontando le controversie legate ad esso.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)
L’attrice britannica, oggi famosa specialmente per essere protagonista e co-creatrice della trilogia horror di Ti West cominciata con X – A Sexy Horror Story, ha detto di aver apprezzato molto l’aspetto “provocatorio” del suo personaggio. “Non mi sottraggo mai a questo tipo di materiale e a questo tipo di film”, ha detto ai giornalisti.
“Trovo che all’interno di questo tipo di storie ci siano personaggi davvero impegnativi che mi permettono di esplorare sfaccettature di me stessa che non mi sento molto a mio agio a rivelare al di fuori di un set. Gabi è un personaggio molto vario e dinamico. All’inizio è una donna piuttosto dolce e senza pretese e alla fine del film la vediamo invece completamente selvaggia e scardinata, solo primordiale”, ha spiegato Goth.
Il personaggio di Skarsgard, invece, è uno scrittore in difficoltà, burattino di un gioco perverso e pericoloso. “Si capisce già nel suo primo incontro con Gabi che non gli ci vuole molto per seguirla come un cane affamato”, ha affermato l’attore. “È stato abbastanza divertente giocarci con quanto fosse credulone e quanto fosse facile manipolarlo. Volevo uscire dalla mia testa… buttarmi lì dentro, in questo mondo, e vedere cosa sarebbe successo. È un film così viscerale, in cui succedono tante cose”.
I due personaggi, però, sono uno lo specchio dell’altro, come suggerito da Goth. “Penso che Gabi possa ritrovare molto di se stessa in James. Ed è anche per via di questo riconoscimento che le è così facile rivoltarlo come un calzino. Perché hanno lo stesso background culturale, lo stesso status sociale e, cosa più importante, hanno entrambi una vita di insuccessi e di fallimenti. Hanno modi diversi di affrontare questa condizione, ma da dentro penso siano molto più simili di quanto sembri”, ha spiegato l’attrice.
Berlinale 73 | Brandon Cronenberg:“Un prossimo film tratto da Ballard”
Il film è in parte ispirato, per ammissione dello stesso regista, al romanzo di Super-Cannes di J. G. Ballard, pur non trattandosi di una vera e propria trasposizione fedele o ufficiale. “Adoro Ballard e in passato ho pensato spesso di adattare il suo libro per il cinema, ancora prima di realizzare Infinity Pool.
Quindi sicuramente c’è un po’ di questa influenza nel film. Non è la stessa cosa, ma sicuramente il mood è quello. Siamo attualmente in fase di trattativa con chi detiene i diritti di Super-Cannes per riuscire a realizzare un adattamento cinematografico nel prossimo futuro. Mi piacerebbe molto farlo”, ha annunciato il regista.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)
Di Infinity Pool si è parlato, e si continuerà a parlare, specialmente per le sue scene più esplicite e disturbanti. “Non trovo particolarmente utile avere degli intimacy coordinators (figure che garantiscono il benessere di attori e attrici che partecipano a scene di sesso o ad altre scene intime in un film) sul set”, ha dichiarato Mia Goth.
“E probabilmente questo è dovuto al fatto che ho sempre lavorato con registi fantastici: sensibili, gentili e professionali. Come appunto Brandon Cronenberg. Spesso è meglio girare la scena senza perdere troppo tempo a discutere di cosa si può o non si può fare. È una situazione che crea più imbarazzo che altro. Se c’è fiducia tra gli attori e con il regista, basta quello”.
Cronenberg ha poi scherzato sulle notizie apparse sui giornali relative a degli spettatori, nelle diverse presentazioni del film in giro per il mondo, che hanno abbandonato la sala dopo essersi sentiti male davanti alle scene più disturbanti: “In realtà, poche persone hanno lasciato la sala durante queste proiezioni. Devo dire che siamo un po’ delusi. Forse non abbiamo fatto un buon lavoro. Quando abbiamo mostrato il film ai nostri amici, pochissimi hanno riso davanti all’umorismo molto perverso della storia. E pensavamo di essere spacciati. Invece il pubblico sembra averlo compreso”.
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