Oggi Fass ha 44 anni ed è giunto ad un punto fondamentale della sua vita. Deciso ad oltrepassarlo, si apre davanti all’obiettivo critico di Poe, uno dei più interessanti registi indipendenti dell’America di fine anni ’70 e inizio ’80. La depressione, la dipendenza dai farmaci, il rapporto dolce e allo stesso tempo estremo con la madre, prima la delusione e poi la rassegnazione nei confronti del padre, l’indifferenza nei confronti del fratello Lyle, sono gli elementi con cui Fass tramortisce lo spettatore. La sua vita è una storia di vittime e carnefici, in cui le prime fanno presto a trasformarsi nei secondi e viceversa. L’opera è dedicata ad Alice, madre di Brian, da lui ricordata sempre dolcemente, ma in realtà una figura anch’essa ombrosa, che contribuisce a costruire un rapporto alla Psycho con il figlio. Sembra azzeccata la scelta di inserire, in sede di montaggio, lo split screen per mostrare un punto di vista diverso da quello di Brian, comprensibilmente troppo coinvolto nella vicenda. Proprio questa esigenza di verità è il punto di forza del progetto e della regia di Poe.
Ammirevole il lavoro di montaggio, non solo per l’introduzione di varie tecniche digitali particolari, ma anche per aver dato organicità a trent’anni di storia personale, che lo stesso Fass fatica a raccontare in maniera sequenziale. Nell’originalità del digitale, il risultato è un racconto fatto di sequenze chiare, in cui lo spettatore non si perde, riuscendo a sentire sulla propria pelle tutte le emozioni che Fass, affetto da anedonia, non riesce più a provare.