Intervista al regista Marco Tullio Giordana: “Bertolucci mi ha salvato la vita”

La XXI edizione del Festival del cinema di Porretta Terme ieri sera ha celebrato un evento speciale dedicato al cinquantesimo anniversario dalla prima proiezione italiana del film Ultimo tango a Parigi diretto da Bernardo Bertolucci. Una ricorrenza speciale non solo per la manifestazione cinematografica, ma anche per il regista Marco Tullio Giordana, che abbiamo avuto di intervistare telefonicamente.

Ultimo tanto a Parigi compie 50 anni

Tra i film più acclamati e discussi della storia del cinema italiano, Ultimo tango a Parigi ricopre sicuramente un posto d’onore. Ben cinquanta anni fa, per la première italiana di questo film, il 15 dicembre 1972, venne scelta la location di Porretta Terme, più precisamente del cinema Kursaal. Giudicata un capolavoro e uno scandalo, allo stesso tempo, questa pellicola diretta da Bernardo Bertolucci vide la partecipazione di attori del calibro di Marlon Brando e Maria Schneider.

Nonostante sia trascorsi così tanti anni dalla sua realizzazione, ancora oggi, viene ricordato come uno dei titoli rimasti vittima della censura giudiziaria, tanto che nel 1976 vennero distrutte moltissime copie del film. La versione proiettata ieri sera si tratta della pellicola restaurata da Vittorio Storaro per il CSC – Cineteca Nazionale nel 2018.

Marco Tullio Giordana e il legame con Ultimo tango a Parigi

A prendere parte all’unico evento ideato e realizzato per celebrare il cinquantesimo anniversario di questo film è stato il regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana (I cento passi, La meglio gioventù, Romanzo di una strage). Nell’intervista rilasciata per NewsCinema, il cineasta milanese non solo rende omaggio alla professionalità di Bertolucci, ma ricorda anche l’esatto momento nel quale, il regista – inconsapevolmente – con la sua arte, gli salvò letteralmente la vita a Parigi.

Intervista al regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana

Buon pomeriggio signor Giordana. Sono solita aprire le interviste con una domanda: come sta?
Ho un po’ di mal di gola, ma professionalmente sto benissimo. Sono a Padova per l’ultima settimana di repliche su uno spettacolo di Pasolini che ho realizzato con Luigi Lo Cascio, scegliendo anche le poesie di Pasolini e creando una drammaturgia intorno a queste poesie. Lo spettacolo ha debuttato a Venezia, poi è stato a Verona, a Milano e adesso Padova. Lo spettacolo si chiama Pa’ come erano soliti chiamarlo i ragazzi in tono dispregiativo.

Era da tempo che non lavoravo con Lo Cascio e mi sono chiesto chissà come lo avrei ritrovato. Invece è stato bellissimo ritrovare una persona così allegra, pronta a cambiare. È stato meraviglioso ritrovarlo intatto nel tempo, come uno strumento musicale che non si è fatto scalfire dal tempo ma ha acquisito solo maggiore esperienza nel suono.

Domani al Festival di Porretta Terme verrà celebrato il cinquantesimo anniversario del film cult Ultimo tango a Parigi diretto da Bernardo Bertolucci. Cosa la lega emotivamente e professionalmente a questo film? Cosa ha provato la prima volta che ha avuto modo di vederlo finito?
Sicuramente una sensazione strana, perché nei titoli di testa erano stati inseriti dei quadri di Francis Bacon, che io avevo visto alla mostra e che erano state all’origine dell’incontro fortuito con la troupe di Ultimo tango a Parigi. E poi, perché la prima scena di apertura del film è quella che io ho visto girare. Ho pensato ma questo è proprio il mio film, ma non avevo nessuno con cui vantarmi. Aver avuto la possibilità di vedere quella scena in macchina da presa mi ha dato tutta un’altra visione rispetto a quella del film. Il film mi è piaciuto molto e l’ho trovata molto conturbante.

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Leggendo alcune delle dichiarazioni che ha rilasciato in varie occasioni, mi ha sorpresa molto scoprire che dopo aver visto dal vivo Bernardo Bertolucci dirigere Ultimo tango a Parigi, lei abbia desistito nel compiere un gesto estremo, a causa di una grande delusione artistica. Quindi possiamo dire che il regista, inconsapevolmente, le ha salvato la vita?
È assolutamente vero! Lo devo ringraziare! A me è capitato di andare sul set di alcuni amici, ma devo dire che è il luogo più noioso del mondo. Se uno non è lì per fare qualcosa, c’è solo un tempo infinito ad aspettare qualcosa che non si capisce. Spesso regna il malumore, la tensione e per questo non sono molto felice di andarci.

Invece in quel set a Parigi, si respirava un’aria allegra, seducente, dove tutti erano pronti a compiacere questo regista molto affascinante e che non aveva bisogno di alzare la voce per farsi rispettare. Tutti lo volevano assecondare. Questa atmosfera mi colpì molto. Non avevo mai visto girare prima, pensavo che il cinema fosse così. Tanti anni dopo, quando mi sono ritrovato a lavorare su un set, ho voluto assomigliare a lui non solo come regista, ma come atmosfera nel quale si lavora.

Mi chiedevo, ma lei ha mai pensato a cosa sarebbe potuto accadere se lei non fosse mai passato di lì? O se al posto di Bertolucci avesse visto un altro regista?
Io sapevo chi era Bertolucci. Stavo un po’ lontano perché avevo paura che mi cacciassero, che mi prendessero per uno stalker. Però man mano mi avvicinavo come un camaleonte, per prendere i colori. Io avevo visto il film Prima della Rivoluzione di Bernardo Bertolucci perché mi piaceva molto andare al cinema. La sera al quartiere latino, davano Strategia del ragno e quello è stato il film che mi ha portato a dire: “voglio fare anche io cinema”.

È pazzesco vedere come un uomo ti può cambiare la vita senza saperlo. Tra l’altro questa cosa gliela raccontai molti anni dopo, a Bologna nel 2005. Anno nel quale il mio film La meglio gioventù era riuscito a battere ai David di Donatello i miei due maestri, Bertolucci e Bellocchio. Ricordo che rimase molto colpito dal mio ricordo.

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Negli ultimi anni, la figura di Aldo Moro è stata spesso portata sul piccolo e grande schermo. Lei stesso lo ha fatto con il film Romanzo di una strage, nel quale vediamo Fabrizio Gifuni calarsi perfettamente nel leader politico della DC, prima ancora di Esterno Notte diretto da Marco Bellocchio. Tra i suoi primi titoli, appare il documentario Forza Italia di Roberto Faenza, al quale partecipò in veste di autore, incentrato sulla crisi della DC. Un esordio che avvenne durante un periodo complesso per l’Italia, dato che uscì nel 1978, a pochi giorni dal rapimento e omicidio proprio di Aldo Moro. Secondo lei, come mai la figura di questo politico è diventata così necessaria da raccontare al cinema o in televisione?
Guardi lei mi ha fatto riaffiorare un ricordo molto forte per me, legato al film Forza Italia, realizzato con materiali di repertorio. Tranne poche cose girate, che tra l’altro girai io stesso. Ricordo che quello che avrei dovuto riprendere era l’arrivo di questi democristiani nella sede di Piazza del Gesù a Roma in occasione di una Direzione Nazionale. Ovviamente avevo la debita autorizzazione come operatore e vidi arrivare Fanfani, Forlani, Andreotti e anche Moro.

Ricordo che lo seguimmo e lui non prese le scale come gli altri ma prese un ascensore che non però non arrivava mai. Moro pazientemente stette per alcuni minuti ad aspettare in silenzio. Non appena le porte si aprirono, si girò verso di noi e disse: “siete sazi?” entrò in ascensore e andò via. Aldo Moro è stato il primo attore che ho inquadrato nella mia vita. Quando ho fatto il mio primo film, Maledetti vi amerò (1979) era passato appena un anno dal suo rapimento e assassinio. In quel film ho sentito il bisogno di parlare sia di Aldo Moro e sia di Pasolini. Due figure le cui morti hanno segnato e cambiato il destino dell’Italia.

Il film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio è la cosa migliore fatta per raccontare quel periodo. Ho trascorso anni ad arrovellarvi, cercando di trovare la chiave giusta per raccontare quegli anni. Quando ho visto il film di Bellocchio mi sono sentito liberato. Lo spirito del tempo e ciò che ha raccontato è stato fantastico e io stesso non sarei stato capace di farlo meglio.

Pensando al vostro modo di fare cinema, trovo in lei e in Marco Bellocchio, una capacità di riuscire a raccontare storie realmente accadute e che hanno segnato pagine drammatiche del nostro Paese, in maniera profondamente incisiva e in grado di arrivare alla mente e al cuore dello spettatore.
La ringrazio molto. Diciamo che c’è anche una parentela ideale con il film che ho girato io, Romanzo di una strage in cui Gifuni interpreta un Moro più giovane. Fabrizio Gifuni è un uomo molto intelligente, persona serissima e a volte lo sgrido e gli dico “Fabrizio sorridi!”.

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Nei suoi film vengono spesso raccontate storie di giovani, uno su tutti Peppino Impastato, e di fatti realmente accaduti nella storia del nostro Paese. Per quale motivo ha voluto orientare il suo cinema verso questo genere che non sfrutta la finzione o la fantasia?
A me non interessa di raccontare il passato, ma di andare a scoprire e di tirar fuori dal buio, delle cose che uno crede siano andate in un modo e invece sono andate in un’altra. Rivelare l’altra faccia di luoghi comuni. Pensando a Peppino Impastato è stato detto che lui fosse una specie di terrorista, morto mentre cercava di armeggiare un ordigno per far saltare un treno. Questo è segno anche della vigliaccheria con cui i mafiosi non hanno voluto attribuirsi quel delitto, cosa che di solito fanno sempre, perché serve per intimidire.

Questa mi sembrava un’ingiustizia nei confronti di una figura così affettuosa. Non era un uomo burbero che scagliava gli anatemi. Era una personalità divertente che utilizzava l’arte, la commedia attraverso la sua radio per rappresentare i conflitti della terra in cui viveva in maniera fantasiosa. Mi è sembrato bello raccontare la storia di questo ragazzo. E devo dire che poi quando uscì, fece una fortuna immensa proprio per questa caratteristica di non raccontare la storia di un eroe inimitabile e che facesse dire a chiunque lo guardasse “io non riuscirò mai ad essere come lui”.

Vedere nei comportamenti quotidiani lottare con allegria e promettere sollievo, anziché tetraggine. Poi ebbi la fortuna di incontrare un interprete fenomenale, quale Luigi Lo Cascio. Fui molto fortunato. Ricordo la lavorazione in Sicilia, la collaborazione di tutti. Noi abbiamo girato a Cinisi, proprio nella città, nei posti veri. Non abbiamo dovuto nasconderci da un’altra parte.

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Questo film quindi è stato un atto di verità e di giustizia per Peppino Impastato, riuscendo ad entrare e a restare nel cuore degli spettatori. Cosa pensa quando viene invitato nelle scuole per parlare di film I cento passi?
Ogni volta che mi invitano nelle scuole medie e superiori sono molto felice di andarci. Mi è capitato anche durante il periodo del lockdown di connettermi al pc per parlare con loro. Lo faccio molto volentieri perché i ragazzi inizialmente fanno sempre un po’ di chiasso, ma poi il film prende e si identificano e capiscono tutti i passaggi. Alla fine si è creato un rapporto, come se fossimo amici. Il cinema è anche questo.

Ultimamente è uscito il film Yara, nel quale viene raccontato il brutale omicidio della giovane ginnasta Yara Gambirasio. Se dovesse scegliere di raccontare un fatto di cronaca realmente accaduto in Italia negli ultimi vent’anni, la sua scelta su quale vicenda ricadrebbe?
Non saprei. Il film si intitola giustamente Yara perché racconta l’indagine, il processo e come si è arrivati alle tre sentenza di giudizio. Mi sono basato su tutte le carte processuali. Ma il cuore del film è rappresentato dal personaggio della giudice che malgrado tutte le interferenze, le ostilità, i partiti presi, vuole andare fino in fondo.

A me piace raccontare le storie di persone per bene e che hanno volontà di fare qualcosa di buono. Se non c’è questo elemento a me passa la volontà di raccontare la storia. Non mi piace raccontare di storie di criminali e farli diventare degli eroi. Adesso tra i delitti che vedo accadere, non vedo elementi sui quali posso appoggiarmi per affrontare tutto il dolore che comporta raccontare queste storie.