L’album, composto da 9 brani, funge da cartina di tornasole dello spirito iconoclasta di Iriondo, ma se gli spunti creativi, a cui il nostro attinge, possono considerarsi interessanti, la messa a punto degli stessi non sempre può dirsi monolitica. Ma procediamo per punti. Irrintzi si apre con Elektraten Aurreskua, coacervo di suoni etnici – emessi da txitsu, tum-tum e alboka, nonchè dalla voce di una bambina – che rievocano (così come in Itziar En Semea) le origini basche del musicista. Il brano funziona. Come preludio. Ci si aspetterebbe infatti una risoluzione nelle tracce seguenti, che però tarda ad arrivare. Lo stesso approccio si ripresenta in Irrintzi e ne Il cielo sfondato, in cui una progressione armonica cromatica, la preziosa presenza di Paolo Tofani (celebre chitarrista degli Area) e le incursioni ‘indianeggianti‘ dello Shahi Baaja non aiutano a far decollare l’artefatto sonoro caleidoscopico.
A dir poco suggestiva, invece, l’idea canalizzata in Gernika Eta Bermeo, catalisi di una memoria collettiva richiamante il dramma della sanguinosa strage di Guernica – fonte di ispirazione anche per l’omonima e celeberrima opera di Picasso – e ricordata dalle parole di Karmel Iriondo Etxaburu, padre di Xabier, nonché testimone diretto del bombardamento. Si arriva, quindi, alla parabola finale del lavoro, altamente coverizzata. Un mosaico di tasselli contingenti ma in rapporto dualistico. Il susseguirsi del mash-up di Preferirei piuttosto gente per bene gente per male, dialogo montato tra Francesco Currà e Lucio Battisti; il riadattamento di The Hammer dei Motorhead; Cold Turkey di John Lennon, suonata con i colleghi degli After – e probabilmente il brano più riuscito -, formano infatti gli ingredienti di un pastone indigesto, di una melodia litanica. Quello che Iriondo espone è una sperimentazione scevra, altamente autoreferenziale. Irrintzi è un cane che si morde la coda, un leone che ruggisce come un chihuahua, un’esegesi noise priva di fonti ed interrelazioni. Manifesto di una consistente conoscenza sonora ma di una scarsa geometria musicale.
La tavolozza è piena di colori che non trovano spazio su tela. Eccetera, eccetera, eccetera [cit. Francesco Currà, Rapsodia Meccanica].