Interviste
Paolo Genovese rivela il suo rituale: “Lo faccio da quando avevo 14 anni” | Intervista esclusiva
Il 30 Settembre Paolo Genovese è stato ospite alla prima edizione di Castiglione del Cinema. Lo abbiamo incontrato ed ecco cosa ci ha raccontato in una video intervista esclusiva.
Sul palco con il Direttore Artistico Emanuele Rauco, il regista di successi come Tutta Colpa di Freud, The Place, Immaturi e Perfetti Sconosciuti, ha tenuto una masterclass a Castiglione del Cinema 2023 per parlare del mestiere del regista, di cinema e della sua carriera. A fine Ottobre sarà alla Festa del Cinema di Roma con la serie tv Leoni di Sicilia, solo ultimo lavoro che andrà in onda su Disney+, ma ricordando i suoi esordi ha raccontato soddisfazioni e delusioni con umiltà e sincerità.
“Incantesimo Napoletano è stato il primo corto che ho fatto in assoluto ed è stato selezionato al Festival di Locarno. Lì davano molta attenzione ai giovani poiché i corti selezionati venivano proiettati prima dei film importanti in una piazza che è probabilmente il più grande cinema all’aperto del mondo. Nemmeno quando ho vinto il David ero così emozionato e quando è toccato a me il corto è stato proiettato completamente sfocato per un errore tecnico. Mi veniva da piangere, eppure ho vinto con la motivazione che avevo avuto il coraggio di aver raccontato una storia di disagio per la tecnica del fuorifuoco e mi ha segnato per sempre”.
Il “piccolo rituale” di Paolo Genovese
“Ho cominciato a scrivere le mie primissime cose a 14 anni forse 13, perchè mi regalarono una Olivetti Lettera 32 con cui cominciai a giocare. Da allora la prima scena di tutti i miei film io la scrivo con quella Olivetti Lettera 32, è il mio piccolo rituale. Solo la prima scena, perchè altrimenti mi ci vorrebbe più tempo a scriverla che a pensarla” ci ha rivelato in una video intervista che potete vedere per intero qui sotto grazie al nostro canale YouTube MADROG (se non siete ancora iscritti cliccate qui, è gratuito e sarete aggiornati sui vari nuovi video pubblicati di cinema e serie tv).
“In Italia si fa poca cultura in generale, ma soprattutto poca cultura del cinema e quindi i vari valorosi direttori di festival che si sobbarcano l’onere di organizzare questi eventi per fare in modo che i professionisti del grande schermo possano incontrare il pubblico e trasmettere l’esperienza diretta e la passione per questa arte credo sia veramente importante e un modo per avvicinare il pubblico al cinema” ha osservato il regista romano, riflettendo sul modo per riportare i giovani in sala.
Come riportare i giovani al cinema
“Quando si conosce si ama, conoscere la storia del cinema, quanto amore e quanta passione c’è dietro a un film probabilmente ti fa venire voglia di vederlo nel suo massimo splendore. I film sono pensati per essere proiettati in una sala cinematografica, sia per la qualità dell’audio e del video, sia per la condivisione delle emozioni con il pubblico, sia per potersi prendere due ore di tempo e farsi raccontare una storia” ha detto.
“Per i giovani sicuramente c’è la concorrenza delle piattaforme che ben venga, un nuovo modo di fruire le storie con tv, iPhone o iPad in qualunque momento e luogo. Non lo demonizzo, va benissimo, ma dobbiamo preservare la sala cinematografica perchè l’emozione che ci dà un film in sala non sarà mai equiparabile un film a casa o su lo smartphone. Inserire nelle scuole dei corsi di cinema credo sia qualcosa di fondamentale, se ne parla da tanto ma non si è fatto molto. La cultura è l’unico modo per riavvicinare i giovani, come la musica o il teatro. Poi ovviamente c’è anche una responsabilità da parte degli autori perchè comunque non è un automatismo, faccio un film che il pubblico deve vedere. Noi autori dobbiamo meritarci il pubblico, e quindi abbiamo la responsabilità di raccontare storie interessanti e accattivanti” ha aggiunto Genovese.
In Evidenza
Alda Merini: Folle d’Amore | Intervista all’attrice Sofia D’Elia: “Una donna libera e diversa”
La nostra intervista a Sofia D’Elia, giovane attrice pugliese che interpreta Alda Merini durante i delicati anni dell’adolescenza. Il biopic diretto da Roberto Faenza andrà in onda il 14 marzo in prima serata su Rai Uno
Alla giovane attrice pugliese Sofia D’Elia, classe 2006, spetta il compito e l’onore di portare sul piccolo schermo la versione adolescenziale di Alda Merini, scomparsa nel 2009. Ad assumere le parti della grande poetessa, in altre fasi della vita, troviamo anche la vincitrice di un David di Donatello Laura Morante e Rosa Diletta Rossi.
Alda Merini: Folle D’amore, una coproduzione Rai Fiction – Jean Vigo Italia con anche Federico Cesari, Giorgio Marchesi e Mariano Rigillo, andrà in onda il 14 marzo in prima serata su Rai Uno.
Sofia D’Elia, 17 anni, divisa tra la Puglia e Roma, ci ha raccontato qualcosa sul senso di responsabilità intrinsecamente legato al ruolo da lei interpretato. Le sue parole sono caratterizzate da una consapevolezza sensibile ed una maturità attenta: “Chi pensa che avere un disagio possa significare solo buio sbaglia“, ci dice ad esempio dell’immagine inedita che il biopic promette di restituire sulla poetessa dei Navigli.
D’altro canto, il regista Roberto Faenza, con cui è tornata a collaborare dopo Hill of Vision (2022), dice di lei: “A mio avviso è straordinaria, per la sua sensibilità e l’attenzione che ha quando entra in scena. È un volto interessante, fragile e sapiente. Ideale per il cinema”.
Com’è stato dare vita alla fase adolescenziale della grande Alda Merini?
Interpretare il ruolo di Alda Merini è stato immenso, per me. La sua voglia di essere una donna libera e diversa ne ha fatto un emblema della figura femminile. Tutto questo mi ha sempre affascinato e incuriosito. Essere donna oggi, purtroppo, non è sempre così facile. Spesso si è attaccate in diversi ambienti e non si è sempre tutelate.
È stato affascinante rileggere le poesie dopo aver interpretato un personaggio così importante e averne scoperto la vita da ogni angolatura. Per me, in particolar modo, è stato meraviglioso studiare l’adolescenza di Alda Merini, per capire come darle vita.
Com’è stato collaborare con gli altri “volti” di Alda Merini, nonché Rosa Diletta Rossi e Laura Morante?
Per me è stato un onore condividere il set con attrici come loro. E dato che interpretavamo lo stesso personaggio, abbiamo dovuto trovare un punto di accordo nell’interpretazione. Sin dalla prima lettura del copione, ho ammirato il modo in cui tecnicamente sapevano già dare voce a una figura di fronte a cui ogni attore avvertirebbe un senso di responsabilità.
Si parla di una donna che tutti conoscono e c’era molta paura e timore, almeno da parte mia. Di loro ho ammirato la scioltezza e la liberà con cui hanno affrontato il ruolo. Ho da imparare molto da attrici così. Ma anche dagli altri attori come Alessandro Fella che interpreta Giorgio Manganelli, con cui ho avuto un bel confronto sul set.
Alcune nozioni biografiche tradizionali dipingono Alda Merini come una persona non pienamente consapevole di sé. Questo film ne restituirà un’immagine inedita?
Certo. Per quanto riguarda la mia parte, Alda è una ragazzina malinconica e sensibile, è vero, ma è piena di vita. È una sognatrice in un contesto storico difficile.
Era controcorrente, fin da ragazzina. Era affascinata dalla poesia e dalla musica. Sapeva trasformare ogni emozione in un’armonia con il pianoforte. Al posto di raccontare agli altri una cosa che le era successa, si affidava alla carta o alla musica. E questa è una cosa bellissima.
Alda Merini soffriva di bipolarismo, considerato erroneamente come uno stigma sociale. È stato anche questo, invece, a definire la grandezza delle sue opere. Cosa ne pensi?
È vero. Ed è proprio durante l’età adolescenziale che Alda Merini ha incontrato le prime ombre della sua mente. E fin dall’adolescenza si è nutrita di poesia per evadere dal disagio, che in realtà è diventata la sua fonte di ispirazione. Questa è una cosa magnifica. La luce nasce dall’ombra, come diceva Caravaggio. Chi pensa che avere un disagio possa significare solo buio sbaglia.
Cos’è che ti porti nel cuore da questa esperienza?
Interpretare il ruolo di Alda Merini mi ha fatto riflettere. Mi ha fatto anche apprezzare la maggiore libertà che abbiamo oggi, grazie proprio a figure come lei. Aver interpretato questo personaggio mi ha fatto pensare a quante volte l’arte abbia fatto da cura.
Vedi anche Van Gogh o Beethoven. L’arte è un rifugio. È una casa. Mi porterò nel cuore che, per l’arte, qualsiasi cosa tu faccia è sempre giusta. E Alda voleva questo.
C’è un’altra donna a cui ti piacerebbe dare vita sul grande o piccolo schermo?
Ce ne sono tantissime. Mi piacerebbe interpretare la figura di Giovanna d’Arco. Mi piace pensare che la donna, anche in contesti difficili, si è sempre battuta. O Marie Curie, insomma, tutti ruoli femminili abbastanza potenti.
Alda Merini ci ha insegnato che anche il dolore può fare grandi cose. Sei d’accordo?
Noi al dolore diamo sempre un’accezione negativa. Però a volte è proprio il dolore il nostro punto di partenza. È quella condizione che ci consente di tirare fuori tutto quello che abbiamo nella mente.
Il dolore ci consente di esternalizzare: c’è chi l’ha fatto con la poesia, chi con i quadri. Quante Alda Merini esistono oggi e noi non lo sappiamo? La debolezza diventa forza. Per me sarà sempre così.
Per conoscerti meglio: quali sono i tuoi film e serie TV preferiti?
Devo fare il nome di Tim Burton, sono la sua fan numero uno. Mi piace come parta dalla diversità per renderci tutti uguali. I suoi film, come ‘La sposa cadavere‘, sono ricchi di messaggi morali, che ci fanno riflettere.
Poi amo sicuramente i film drammatici, come ‘Shutter Island’ di Martin Scorsese. Come attrici, mi rifaccio tantissimo a Natalie Portman e Keira Knightley. Per le serie TV, invece, mi piace come ‘Peaky Blinders’ descrive la situazione sociale. Ma adoro anche com’è stata costruita la storia di ‘Downtown Abbey’.
Che cosa puoi anticiparmi sui tuoi progetti futuri?
Ci sono diversi progetti molto belli, ma non posso dire troppo. Prenderò parte a un film fantasy, un genere che mi sta molto a cuore, perché è capace di trasportare il pubblico in un iperuranio tutto suo. Anche se non posso rivelare molto, posso dire che mi piace sempre mettermi alla prova. La recitazione, per me, è proprio tirare fuori dei lati che non pensavo di conoscere.
Interviste
Lolita Lobosco 3, Luisa Ranieri rivela: “una donna disfunzionale” | Esclusivo
Oggi, venerdì 1˚marzo, si è tenuta la conferenza stampa di Le indagini di Lolita Lobosco 3, con la protagonista Luisa Ranieri, il regista Renato De Maria e il resto del cast
Il mese di marzo comincia con la conferenza stampa di Le indagini di Lolita Lobosco – Terza stagione, presso la Sala Sergio Zavoli della sede Rai in Viale Mazzini, a Roma. Il cast, capitanato da Luisa Ranieri, il regista Renato De Maria e il resto degli attori hanno risposto a domande e hanno raccontato qualche anticipazione.
Ispirata alla serie di romanzi scritti da Gabriella Genisi e ambientata nella città di Bari, il terzo capitolo della serie di successo debutta con il primo episodio il 4 marzo, in prima serata. Nel frattempo, clicca qui per la nostra recensione in anteprima.
Le nuove indagini impegnano la vicequestore Lolita attorno ad un incidente che nasconde molto più di quel che sembra. Inoltre, un incontro inaspettato proverà a farle cambiare idea sull’amore, dopo i fallimenti sentimentali delle sue ultime relazioni.
Maria Pia Ammirati, direttrice di Rai Fiction, la definisce “Una stagione molto più matura“. E, commentando gli ascolti così alti, aggiunge: “Noi facciamo solo l’ascolto lineare, che ci contraddistingue. Noi accumuliamo, con RaiPlay, milioni di visualizzazioni. Per cui, Lolita Lobosco è anche ai primi posti di fruizione digitale”.
E conclude: “Quando creiamo una serie, non ci poniamo limiti”.
Lolita Lobosco 3: l’alchimia tra gli attori
Dopo aver mostrato, in conferenza stampa, una clip tratta dal primo episodio della terza stagione con Luisa Ranieri, Jacopo Cullin (che interpreta lo storico Lello) e Giovanni Ludeno (che torna nei panni di Antonio Forte), si è parlato a lungo dell’alchimia tra gli attori.
Nella scena mostrata, in particolare, i tre interpreti si trovano a cena e ridono come dei vecchi amici: “Si vede che c’è un’intimità consolidata“, concordano Luisa Ranieri e Jacopo Culllin.
A proposito dell’alchimia tra gli attori, interviene Maurizio Donadoni, che interpreta il ruolo di Trifone: “Recitare è quello che uno vuol far vedere. In realtà, in questo lavoro – grazie a chi lo illumina, veste e trucca – ha un valore aggiunto. Ogni tanto, come in questo caso, non riesci a capire se stanno recitando o no. È una cosa che non trovi facilmente“.
E conclude: “Li guardo ridere e mi chiedo: ‘Stanno recitando veramente?‘”. “Noi abbiamo trovato un modo di stare insieme e fondere le recitazioni”, ci tiene ad aggiungere Luisa Ranieri. “Improvvisiamo tantissimo, l’altro è sempre pronto senza andare nel panico”.
Il commento del regista Renato De Maria
“Com’è stato per il regista inserirsi per un progetto che già andava avanti con successo da due stagioni?“. La domanda per il regista Renato De Maria sorge spontanea.
Lui risponde: “Non è stato facile, prendevo in mano una serie che già aveva funzionato bene. Tutti avevano il terrore che la rovinassi (ride, ndr). Però devo dire che la cosa più interessante, è stato proprio lavorare con gli attori“. “Luisa, già di per sé, è una protagonista forte. Quando hai un’attrice così importante, tutto viene più facile. Anche il cast è fantastico. Sono tutti protagonisti di una storia personale che ha un tono e un colore, dati proprio dal loro stile di recitazione”.
E conclude: “Li ringrazio tutti, è stato un lavoro eccezionale”. Parlando della Puglia, ci tiene ad aggiungere: “È la nostra Los Angeles: c’è sempre una luce e temperature meravigliose. Hai sempre a disposizione scenari marittimi e interni cittadini o di campagna ad alto impatto visivo. Registicamente, è una terra fantastica“.
Jacopo Cullin: “Il mio è un personaggio storico, ma ho scoperto nuovi lati”
Jacopo Cullin è un personaggio storico, che partiva – nella prima stagione – non convinto della presenza di un vicequestore donna. L’attore conferma questo presentimento: “Sì, all’inizio al mio personaggio non convinceva avere un capo donna, Poi si è ricreduto. Jacopo in questa stagione diventa papà. È stato molto bello, perché ho avuto modo di scoprire dei lati che non conoscevo”.
Anche Bianca Nappi, in merito alla sua Marietta, ci tiene a dire: “Il mio personaggio sdrammatizza sempre. È l’amica che tutti vorrebbero”. E infatti Luisa Ranieri interviene, aggiungendo: “Per Lolita Lobosco le donne sono ‘quelle che la capiscono’. Per lei Marietta è proprio l’amica, il suo punto di riferimento”.
Daniele Pecci: parla la new entry del cast
Daniele Pecci, new entry della terza stagione della serie Rai, parla del suo personaggio Leon. Quest’ultimo, proverà a far cambiare l’idea che Lolita ha sull’amore, dopo i fallimenti sentimentali delle sue ultime relazioni.
“Non si può dire molto…è un vedovo. Un uomo che a seguito del lutto si è trasferito con le figlie adolescenti a Bari. Ha aperto una galleria, e viene a incontrarsi-scontrarsi con Lolita in una situazione rocambolesca”.
E com’è stato entrare in una famiglia già consolidata? La domanda – la stessa rivolta anche al regista – sorge anche qui spontanea: “È stata una bellissima esperienza”, risponde Daniele. “Interpreto un ruolo importante, perché potrebbe sostituire un amore che c’è stato“.
“Non avevo mai girato a Bari. È una città meravigliosa, un posto bellissimo dove vivere”, aggiunge anche lui. Ma Angelo, il personaggio che ha fatto battere in passato il cuore di Lolita Lobosco, è davvero uscito dalla vita della protagonista? A rispondere ci pensa Mario Sgueglia, il suo interprete: “Non posso dire molto. Penso che uscire dalla vita della protagonista sia impossibile. Si conoscono da quando sono bambini. Angelo è entrato in un programma di protezione testimoni, ma ci saranno degli eventi che lo porteranno a stare insieme a Lolita…“.
Luisa Ranieri: “Lolita è distante con gli uomini, solidale con le donne”
Finalmente, in conferenza stampa, si giunge poi alle tante domande e curiosità attorno al personaggio di Luisa Ranieri. L’attrice protagonista ha così definito Lolita Lobosco: “È una donna ruvida, ma allo stesso tempo accogliente. È molto radicata nelle sue radici e proiettata al futuro. Lei con gli uomini ha un rapporto di distanza, mentre col femminile ha un rapporto di solidarietà“.
Quando le chiedono se si sente allineata con la frase di Lolita, che dice che vivere il momento è tutto ciò che conta, lei risponde: “Non mi posso lamentare. Penso che sia la ricetta in generale della vita. È inutile proiettarsi in avanti, perché aspetti una cosa che non arriva. Anche vivere nel passato non ha senso. Stare nel presente è la ricetta della felicità”.
Inevitabile menzionare nuovamente il rapporto con la città di Bari. “Sono entrata in punta di piedi – dice Luisa Ranieri – e abbiamo creato un rapporto di stima reciproco. Ne sono felicissima, mi hanno dato la cittadinanza onoraria”.
E sul ruolo della donna? “Lolita è una disfunzionale. Io, da attrice, la vedo come una donna sempre alla ricerca di emozioni. Una donna che ha messo il lavoro davanti a sé, e gli uomini accanto. Avere un padre bugiardo non l’ha aiutata ad avere un rapporto con uomini sinceri”.
Alla domanda: “Cosa c’è di te in Lolita?”, Luisa Ranieri risponde senza esitazione: “Sicuramente la passione per le scarpe, poi anche il fatto di essere un po’ malinconica”. E conclude: “Scelgo i copioni in base alle farfalle nello stomaco. La prima sensazione è sempre quella giusta. Lolita Lobosco risponde decisamente al mio istinto primordiale“.
“Grazie, Lolita”
Sulle fragilità di Lolita, Luisa Ranieri dice: “Provo tenerezza. È una donna normale, dove rivedo tante donne che ho conosciuto”. In merito al rapporto con la lunga serialità, aggiunge: “Io mi annoio facilmente ed ero titubante. In realtà, ho scoperto che è una grande fabbrica. Anche come attrice non è noioso ma al contrario con la lunga serialità hai la possibilità di conoscere meglio il tuo personaggio”.
Alla domanda finale, “Il successo cosa porta nella già ricca cinematografia di Luisa Ranieri?”, l’attrice risponde: “È un personaggio che ho amato molto. Dico sempre che è stato un regalo di mio marito, che mi ha fatto leggere i libri”.
“È un personaggio che capita in un momento di maturità attoriale. Devo tanto ai produttori Angelo Barbagallo e Luca Zingaretti (marito della medesima, ndr) per aver creduto nel progetto“.
E conclude: “Volevo ringraziare tutti gli attori che hanno partecipato. Anche quelli che hanno fatto solo una posa. Ringrazio tutti gli attori che mi sono accanto, a partire da Giovanni Ludeno che oggi non è qui, perché è sul set di un alto progetto. Siamo davvero gruppo consolidato. Loro sono stati dei compagni generosi e io li ringrazio moltissimo.
“Non posso che dire ‘grazie, Lolita‘” La serie TV, distribuita in prima visione su Rai 1 in quattro serate, debutterà con il primo episodio lunedì 4 marzo 2024.
Festival
Berlinale 74 | Intervista esclusiva a Tsai Ming-Liang: “Camminare è un atto di ribellione”
Decimo capito della serie Walker di Tsai Ming-liang, Abiding Nowhere è stato presentato alla Berlinale 2024 nella sezione Special. Stavolta il monaco che cammina a una velocità diversa nel velocissimo mondo moderno, fa tappa a Washington D.C., con la collaborazione dello Smithsonian’s National Museum of Asian Art. Ne abbiamo parlato con il regista.
Tsai Ming-liang è oggi uno dei registi più prolifici e adorati dalle accademie e dai musei di tutto il mondo. Lo abbiamo incontrato durante la 74esima edizione della Berlinale per confrontarci con lui sul tempo che passa e sul cinema che cambia, adesso che sono trascorsi quasi vent’anni dallo “scandaloso” Il gusto dell’anguria, riproposto in versione restaurata, e che il progetto lunghissimo della serie “Walker” è arrivato finalmente al decimo capitolo, dopo essere passato persino da una prestigiosa retrospettiva al Centre Pompidou.
La nostra intervista ha inoltre coinvolto Lee Kang-sheng, attore feticcio del regista, ormai tutt’uno con il cinema di Tsai Ming-liang, forza motrice di tutti i lavori del maestro taiwanese, e il giovanissimo Anong Houngheuangsy, già protagonista del premiatissimo Days e del precedente capitolo della serie Walker.
D: I suoi film, specialmente quelli della serie Walker, possono essere visti sia in sala, al cinema, che nei musei, come videoinstallazioni. In che modo pensa che il luogo influenzi l’esperienza dello spettatore?
Tsai Ming-liang: La mia idea iniziale era quella di realizzare dieci film di questa serie, da quando ho visto per la prima volta Lee Kang-Sheng muoversi in questa maniera così lenta e seducente. Volevo che camminasse in dieci luoghi differenti, in dieci film realizzati lungo dieci anni di attività. E fin dall’inizio avevo previsto la collaborazione dei musei, cosa che però ha cominciato a verificarsi solo dopo il quinto film della serie, quando sono cominciati ad arrivare gli inviti per mostre ed esposizioni.
Adoro l’atmosfera che si respira in un museo, perché in quel caso il camminare del protagonista non è solo un camminare nella location in cui abbiamo girato, ma anche un camminare nelle stanze del museo che ospita le installazioni, sia metaforicamente che realmente, dal momento che abbiamo cominciato ad organizzare delle vere e proprie performance dal vivo.
E così anche gli spettatori, i visitatori, camminano incessantemente, non sostano per più di qualche minuto davanti al singolo film, decidono loro autonomamente in che maniera fruire di quell’esperienza. Proiettare un film della serie Walker al cinema è invece qualcosa di completamente differente, perché la gente deve rimanere in sala fino alla fine del film. Ma siccome io credo che ogni film di questa serie sia un modo per vivere e sperimentare il buddismo, l’esperienza in sala è probabilmente quella che preferisco.
Gli spettatori che vanno al cinema si aspettano di vedere dei contenuti e invece si trovano davanti quest’uomo che cammina nello spazio. Proiettare questi film in sala è un modo anche per sfidare le aspettative dello spettatore, ampliare le possibilità di cosa si può vedere al cinema. In un museo si è già più predisposti a questo genere di esperienze.
D: Dallo scorso film della serie, si è aggiunto un secondo personaggio, quello di Anong. Si passa quindi da un personaggio all’altro, in un dialogo invisibile tra le diverse scene. Cosa è cambiato per lei con l’aggiunta di un nuovo attore da seguire?
Tsai Ming-liang: Vorrei poter rimettere le mani sul nono film, dopo aver realizzato questo decimo (ride). Nel nono capitolo, in cui compare per la prima volta Anong, ho probabilmente esagerato, utilizzando questa aggiunta in maniera fin troppo narrativa. Perciò ho voluto cambiare. Mi interessava che le loro strade non si incontrassero mai. Anche perché il percorso che ho fatto con questi dieci film è stato un percorso di progressiva sottrazione. Ho ridotto la musica, i dialoghi, le storie che venivano anche solo suggerite.
In questo decimo film ci sono due uomini che camminano, solitari, senza che ci sia alcuna relazione apparente tra di loro. Sono dieci film singoli, ma è il processo creativo che crea una narrazione che li tiene insieme, un legame tra loro. La prima volta in cui questi film sono stati proiettati insieme è stato in un museo di Ginevra, dove i primi cinque capitoli sono stati proiettati su dei monitor installati a poca distanza gli uni dagli altri. Questo ha creato una sovrapposizione molto interessante dei suoni. Una cacofonia che però non era fastidiosa, ma anzi dava nuovo senso a quello che avevo fatto fino a quel momento.
Anong Houngheuangsy: L’esperienza sul set con Tsai Ming-liang è assolutamente tranquilla e piacevole. È come essere in famiglia, con il regista ma anche con il resto della troupe, che spesso aiuto nel trasportare le attrezzature e in altre piccole mansioni. Io lavoro in un ristorante, quindi il mondo del cinema è qualcosa di nuovo per me, che ovviamente mi affascina molto.
Nella mia vita sono uno spettatore appassionato, ma generalmente sono un consumatore di film commerciali, commedie romantiche, cose di questo tipo… in questo caso, l’esperienza è assolutamente differente, è come se non ci fosse una cesura vera e propria tra la mia vita reale e il momento in cui comincio a recitare davanti alla macchina da presa. All’inizio è stato un po’ difficoltoso, dal momento che non ero abituato a questo tipo di cinema sperimentale, ma con il passare del tempo ho cominciato a capire più profondamente l’approccio utilizzato dal regista.
D: La serie Walker nasce in realtà da un’opera teatrale messa in scena a Taiwan ormai tredici anni fa con Lee Kang-Sheng. Che cosa ricordate di quell’esperienza e quale fu la reazione del pubblico?
Tsai Ming-liang: Devo dire che il pubblico taiwanese fu molto gentile. Loro riescono a resistere a qualsiasi cosa che venga proposta sul palco (ride). Ma ovviamente ogni pubblico reagisce in maniera differente. In quel caso, Lee Kang-Sheng impiegò più di mezz’ora ad attraversare il palcoscenico dalla sua destra alla sua sinistra. Non c’erano effetti di luce, non c’era musica, non c’erano altri attori. Eppure nessuno si alzò dalla sedia…
Lee Kang-Sheng: Inizialmente questo movimento doveva veicolare una trasformazione. Camminando, mi sarei dovuto trasformare nel padre di Tsai Ming-liang. Avevamo chiesto aiuto ad alcuni coreografi del Cloud Gate Dance Theatre per mettere in scena questa trasformazione, veicolarla attraverso il movimento, ma le loro proposte non avevano funzionato. Fu a quel punto che provammo questa camminata lentissima. Dovevo arrivare lentamente ad un tavolo posto dall’altro lato del palco e lanciare in aria i fiori che erano poggiati lì.
D: Girare questo tipo di film è un’esperienza faticosa per il fisico?
Lee Kang-Sheng: Ci vuole parecchia forza e resistenza per girare queste lunghissime scene di camminate. Infatti attendo sempre con ansia il momento in cui il regista mi dica “Stop!”, perché non ce la faccio più. In quei momenti, quando il mio fisico comincia a non reggere più, ripasso nella mia mente le parole dei Sutra, le antiche scritture buddiste, che mi aiutano a resistere e a perseverare nonostante il dolore che provo.
D: Sembra che film come questi non possano esistere se non con l’immagine digitale, nitidissima. Con le moderne attrezzature che permettono un controllo quasi totale sui parametri dell’immagine. È così?
Tsai Ming-liang: Il digitale consente di non avere limiti nella durata delle scene, cosa che si ha invece con la pellicola. Io lavoro come un pittore, quindi con le videocamere digitali mi è più facile impostare alcuni degli elementi che voglio controllare direttamente nelle mie immagini: ad esempio i colori. Creare la giusta atmosfera. E ovviamente anche la leggerezza di queste attrezzature mi consente di viaggiare tra luoghi differenti con più facilità. Nonostante ciò, sono un regista molto meticoloso, che controlla tutto.
Dedico molto tempo alla pre-produzione dei miei film e ai sopralluoghi. Quindi, nonostante il digitale me lo consenta, non giro mai troppo materiale, ma solo quello che mi è utile. Per esempio in No No Sleep, che abbiamo girato in Giappone, dovevamo realizzare una scena a Shibuya, ma c’era troppa gente per i miei gusti. Così abbiamo aspettato che arrivasse la notte per poter filmare solo i treni della stazione, che era ciò che mi interessava realmente, senza tutta quella gente attorno.
D: Alla Berlinale è stata riproposta, nella sezione Classici, la versione restaurata de Il Gusto dell’Anguria, uno dei vostri film più conosciuti e discussi. Cosa ricordate dei tempi della sua uscita e delle reazioni che ne seguirono?
Tsai Ming-liang: Nel 2005 c’era ancora la censura in Taiwan. Non era così rigida, ma il mio film fu considerato scandaloso e mi chiesero di tagliare alcune scene. Ovviamente mi rifiutai, anche perché non pensavo si potessero spingere al punto di bloccare completamente il film, soprattutto dopo la vittoria dell’Orso d’Argento qui alla Berlinale. Alla fine, il comitato di censura, composto da quindici “giudici”, si espresse a favore del film: nove contro sei. Il film uscì comunque con una valutazione R, cosa che impediva a numerosi studenti di poter andare in sala. In quel caso, furono gli insegnanti a mobilitarsi, decidendo di mostrare il film ai loro alunni. C’è sempre stato un grande interesse accademico nei confronti del mio lavoro a Taiwan.
Lee Kang-Sheng: Abbiamo viaggiato davvero molto per questo film. Siamo stati al Palace Museum di Taipei, a Kaohsiung… Ero più giovane, il mio fisico era più vigoroso, quindi fu un’esperienza piena di vitalità, di gioia, di danza. Anche se ci furono dei problemi, ad esempio per la scena della torre d’acqua, che era fatta di fibre di vetro, che mi provocarono una forte reazione allergica sulla pelle.
Tsai Ming-liang: Per il film lavorammo con delle porno attrici provenienti dal Giappone e fu un’esperienza completamente nuova per tutta la troupe. Ed è per questo che ci sono quelle angurie, per poter coprire i genitali delle attrici e consentire a Lee Kang-Sheng di recitare tranquillamente senza imbarazzi. All’epoca non c’erano coordinatori dell’intimità e quindi si doveva creare un clima di fiducia tra me e gli attori. Le attrici erano convinte di dover girare un porno, ma dopo le prime scene capirono che si trattava in realtà di un film art-house.
D: Tornando in chiusura alla serie Walker, la domanda a questo punto è d’obbligo. La serie si ferma qui, adesso che ha realizzato i dieci film che aveva in mente, o è destinata a proseguire?
Tsai Ming-liang: Mi piacerebbe continuare (ride). Vorrei filmare Lee Kang-Sheng fino a quando lui non potrà più camminare. L’ispirazione per il mio “camminatore” viene dal monaco del settimo secolo Chen Xuanzang, vissuto durante la dinastia Tang. Questo monaco cominciò un faticoso viaggio lungo la via della seta, verso Occidente, per poter ottenere accesso ai testi originali del buddismo in sanscrito.
Un viaggio che appunto aveva un suo scopo inizialmente, ma che col passare del tempo divenne sempre meno rilevante. L’esperienza del viaggio aveva preso il sopravvento. Il viaggio stesso era diventato lo scopo di quell’esperienza. Nei miei film, camminare è diventato quasi un atto di ribellione. Camminare così lentamente per il mondo… Un atto di ribellione che spinge lo spettatore a mettere in discussione la velocità del cinema, le cose che si possono mostrare con esso.
-
Gossip1 settimana ago
Benjamin Mascolo sfoggia un nuovo loook: ecco come è ora
-
Gossip1 settimana ago
De Filippi si ritira, basta tv: ecco chi la sostituisce
-
Festival1 settimana ago
A Venezia 81 l’illuminante documentario One to One: John and Yoko di Kevin McDonald
-
Gossip1 settimana ago
Nathalie Caldonazzo confessa: una famiglia distrutta | Cosa è successo con il suo ex
-
Festival1 settimana ago
Paura a Venezia 81: suona l’allarme e la gente esce di corsa dalla sala | video esclusivo
-
Festival1 settimana ago
Venezia 81: Babygirl, conferenza stampa | Nicole Kidman: “Un film sul desiderio femminile”
-
Festival1 settimana ago
Disclaimer a Venezia 81, recensione dei primi episodi | Sesso, traumi e segreti oscuri
-
Spettacolo2 settimane ago
I Cesaroni: attore turco nella nuova stagione | Ecco di chi si tratta