Vincent Van Gogh – Un nuovo modo di vedere, la recensione

In occasione del 125° anniversario della scomparsa del genio Van Gogh, l’Olanda si spinge ad una celebrazione senza precedenti presentando il “nuovo modo di vedere” l’artista più amato del globo in un raffinato film-evento trasmesso contemporaneamente il 14 aprile in oltre mille sale tra Europa, Stati Uniti, Canada, Africa, Asia, Australia, Nuova Zelanda e America Latina.

Trama

Un documentario che viaggia attraverso la vita e le opere del grande artista, reinterpretandole alla luce del nuovissimo allestimento del ben noto museo di Amsterdam, aperto nel 1973. Grazie alla stretta collaborazione con curatori e storici dell’arte lo spettatore può inoltrarsi tra le gallerie e i magazzini – preclusi  solitamente al pubblico – respirando l’aria senza tempo di celebri capolavori e disegni sconosciuti ai più. Niente di più suggestivo di una passeggiata alla ricerca di una nuova luce di cui inondare un’icona portante dell’Arte, eterna e indimenticabile.

Recensione

Un piccolo gioiello tra le mani del regista David Bickerstaff che si propone di ricostruire la parabola individuale dell’uomo Van Gogh, in cui l’arte si affranca da qualsiasi imposizione accademica per divenire espressione dei più profondi recessi dell’anima. I numerosi autoritratti del pittore mettono al centro proprio questa particolare inquietudine, che spesso ricade nel generico stereotipo dell’ossessione senza indagare a fondo l’immaginario collettivo. Un mito da sfatare, dunque, che questo grande evento cinematografico si propone di rilevare e rielaborare in chiave umana e non semplicemente artistica. L’arte infatti, per Van Gogh era soltanto l’ennesimo tentativo di comunicare con l’esterno dopo i frustanti fallimenti da predicatore, e la ricostruzione cinematografica della sua biografia rifugge dall’insistenza sul lato chimerico della sua figura per dedicarsi ad un’analisi più o meno approfondita della sua personalità. Per raggiungere questo obiettivo, sembra essere stato creato appositamente l’attore Jamie de Courcey, dotato di un’incredibile quanto eccezionale somiglianza con il pittore e di grande sensibilità nel cogliere gli stati d’animo dell’uomo più intimo percepibile nel vasto epistolario tramandato sino ad oggi.

La fisicità del protagonista mai invasiva mescolata sapientemente alla concretezza espressiva di stralci tratti dalle sue lettere più commoventi, la silenziosa insistenza delle inquadrature sul primo piano del volto o sugli scorci dei luoghi cari all’artista, il determinante ma al contempo mite intervento degli esperti pervasi da una sorta di timore riverenziale nell’approccio a opere straordinarie: elementi magistralmente fusi in novanta minuti di puro spettacolo emotivo, a sottolineare quanto il processo creativo di Van Gogh possa risultare originale ancora oggi. Nonostante le relazioni interpersonali intraprese dall’artista nel corso della sua esistenza si siano rivelate quasi sempre disastrose, il lungometraggio non ritiene principali lo studio postumo della sua tecnica, del suo rapporto con la luce e con il colore, ma vuole rendere giustizia al suo desiderio pressante e continuativo di entrare in contatto con l’altro, di comprendere la vera essenza dell’essere umano: desiderio che tuttavia gli verrà sempre negato, conducendolo ad un’instabilità mentale ormai classicamente associata alla sua persona, così come gli atti estremi da lui compiuti. La fitta corrispondenza con il fratello Théo si configura come una confessione che accompagna lentamente il percorso tra i suoi quadri più venerati: un nuovo modo di vedere il destino di un uomo non misero folle o genio solitario, ma dai forti principi morali e dal pensiero profondo.