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La follia di Conann stupisce la Quinzaine di Cannes: intervista al regista Bertrand Mandico

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Il regista Bertrand Mandico (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes / Susy Lagrange)

Il regista Bertrand Mandico (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes / Susy Lagrange)

Conann, il nuovo film di Bertrand Mandico, mago nero del cinema francese, sorprende e sconvolge il pubblico di Cannes alla Quinzaine des cinéastes. Un film dal grande impatto sensoriale che ci permette di esplorare tutta la ricchezza dell’immaginario cinefilo del regista. Ecco cosa ci ha raccontato in questa intervista.

Bertrand Mandico aveva già dinamitato il panorama cinematografico europeo con due lungometraggi come Les garçons sauvages e After Blue, oltre che con numerosi cortometraggi. Adesso, con il suo terzo film, nato da una esperienza teatrale, immagina una versione femminile del Barbaro più celebre della storia del genere fnatasy, abbattendo i limiti del suo cinema e regalando al pubblico un’esperienza sensoriale difficile da dimenticare.

Una scena del film Conann (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes)

Una scena del film Conann (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes)

In questa intervista, ci siamo fatti raccontare le tante influenze cinematografiche che compongono il suo nuovo Conann e alcuni dettagli del suo particolare metodo di lavoro.

D: Già nei tuoi due film precedenti c’era una particolare attenzione e una cura quasi maniacale per i dialoghi, che conferivano un ritmo unico alla narrazione, creando una specie di melodia. In Conann sembra di trovarsi davanti a un musical anche se non è propriamente così. Come hai lavorato sul linguaggio dei personaggi in questo caso?

R: Ho cominciato ad immaginare la mia storia e poi, piano piano, dopo che questa era stata più o meno definita, mi sono concentrato sui dialoghi. C’è davvero poco spazio per l’improvvisazione nei miei film, perché lavoro sui dialoghi dei personaggi come si lavorerebbe sulla musica. Le attrici recitano ogni parola che ho scritto, virgole comprese. Dietro ogni linea di dialogo esiste quindi un grande lavoro di artigianato e di cesellatura. Cerco di destreggiarmi tra l’artificio di quello che scrivo e ciò che avviene, a volte anche imprevedibilmente, sulla scena. In questo caso, essendo il progetto nato a teatro, ho avuto modo, durante la lunga fase di preparazione e di prove con gli attori, di capire cosa funzionava del testo e cosa no. Inoltre, ho un metodo tutto mio di registrare i dialoghi degli attori.

Faccio una prima registrazione sul set, che mi serve solo come “memoria” di quello che abbiamo fatto in quel momento. Poi tutto viene ri-registrato in studio e sincronizziamo in post produzione, dandomi la possibilità di continuare a rimaneggiare i dialoghi anche dopo le riprese. In alcuni casi, in studio faccio sussurrare gli attori quando invece sul set, nelle scene che abbiamo registrato, questi urlavano o parlavano ad alta voce. È un modo per avere un suono molto pulito, sia per le voci che per i rumori che compongono la colonna sonora, insieme all’elettronica e al lavoro dei foley artists, ma anche per creare una contraddizione tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo. I miei film vengono “ascoltati” dallo spettatore e non solo “visti”. Devo essere in grado di rimuovere l’immagine e poter ascoltare solo il suono. Il film deve poter stare in piedi così, anche senza l’immagine.

D: Come sempre, questo tuo film è anche un atto d’amore per le attrici e un mezzo per loro di esprimersi in modi diversi e in ruoli generalmente considerati maschili. In Conann, vediamo attrici in differenti età della loro vita. Quasi una denuncia del fatto che, nella realtà dell’industria cinematografica, le donne tendono ad avere carriere più brevi di quelle dei loro colleghi maschi. È qualcosa a cui hai pensato consapevolmente per questo progetto o è ormai diventato un elemento quasi inconscio della tua poetica?

R: Sicuramente c’è un impegno politico, di militanza, su questo tema da parte mia come autore. Voglio affermare la possibilità per le attrici di sperimentare in ruoli che non vengono mai ideati per loro al cinema, anche ruoli non-binari. La scelta di chiamare attrici di età diversa e di dare loro personaggi ugualmente potenti, fieri, nel pieno della loro forza, rientra sicuramente in questa mia operazione più ampia. C’era però, in questo caso, anche la volontà di realizzare un film corale. Anzi, un personaggio che fosse corale, che contenesse in sé tanti personaggi diversi. Ogni periodo della nostra vita è differente. Non siamo sempre la stessa persona, ma cambiamo, in alcuni casi anche radicalmente. Ed è per questo che ho scelto sei attrici per interpretare Conann durante sei età diverse della sua esistenza.

Una scena del film Conann (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes)

Una scena del film Conann (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes)

D: I tuoi film mostrano sempre un interesse per i “corps dans le décor” – i corpi nelle ambientazioni cinematografiche. Come hai lavorato alla scenografia di questo film? E quanto erano grandi i set che hai costruito in relazione a ciò che effettivamente vediamo all’interno dell’inquadratura?

R: C’è sicuramente una specificità di questo film che è quella di aver utilizzato una location pre-esistente, quella di una fabbrica di acciaio ormai in disuso e abbandonata. Si tratta di una location che mi è apparsa immediatamente evocativa, specie per la presenza di questa grossa fornace, che mi ricordava, nella sua forma, un tempio dell’antichità. E così i magazzini mi sembravano perfetti per ricreare l’ambiente urbano di Brooklyn. O un campo di battaglia. Mi sono quindi affidato totalmente a queste ambientazioni e alle sensazioni che suscitavano in me.

Abbiamo girato di notte e attraverso l’illuminazione e l’aggiunta di altre decorazioni create per il film, siamo riusciti a realizzare dei set che erano qualcosa di più di semplici set: evocavano, creavano le diverse epoche del film. L’importante per me era mostrare Conann persa in queste ambientazioni, essendo effettivamente un tutt’uno con esse. Schiacciata, quasi incastonata, in queste ambientazioni. E poi era uno spazio ideale per poter utilizzare la gru (crane) per filmare, per avere una fluidità nei movimenti di macchina, ma anche per poter inquadrare sempre il terreno, rivolgere la camera verso il basso. Essere sempre a volo d’uccello. Inchiodare Conann al suolo, senza mai mostrare il cielo. Dopo tutto, siamo all’inferno e per me era molto importante che questa “costrizione terrena” fosse predominante nel film.

D: Il viaggio di Conann è anche un viaggio nella storia del cinema. Come hai scelto i riferimenti per questo film? C’è una motivazione filologica o ti sei lasciato guidare dalle tue passioni di cinefilo?

R: Ebbene sì, lavoro sul presente, sulle rovine della storia del cinema. Perché ho l’impressione che la memoria storica del cinema sia in pericolo, stia venendo progressivamente dimenticata o, peggio, demolita. Ho l’impressione che molti registi non richiamino abbastanza la storia del cinema per i miei gusti, che dimentichino molti grandi film. Ed è una colpa a cui non mi sottraggo. Per questo sento il dovere di ricordare il passato del mezzo cinematografico nel mio lavoro e l’ho potuto fare in questo film in maniera estensiva. La struttura del film segue quella di Lola Montes di Max Ophuls.

In quel caso, lei raccontava la storia in un circo che era diventato il suo inferno, rivivendo tutta la sua vita dall’alto del suo trapezio, prima del grande salto. Questa è la struttura che ho usato per costruire Conann. Il personaggio di Rainer, ad esempio, è proprio l’equivalente di Mr. Loyal di Peter Ustinov nel film di Ophuls. Poi c’è ovviamente Fassbinder, che viene anch’esso evocato nel personaggio di Reiner, ma che aleggia in tutto ciò che riguarda il melodramma presente nel film. Per il resto, è il mio inconscio che lavora. Una volta che ho scritto la mia storia, una volta che la devo dirigere, mi rendo conto che ci sono delle connessioni con alcuni film che mi hanno segnato. E in quel momento, decido di riconoscere queste connessioni e di esplicitarle.

Mi sono accorto che stavo evocando tutta una parte della storia del cinema francese che oggi non viene spesso ricordata. Quel filone di film che io chiamo “le merveilleux fantastique du cinéma français”. Tutto quel cinema che ha a che vedere con il patto faustiano. Les Visiteurs du soir di Carné e Prévert. La Bella e la Bestia di Cocteau, che in realtà è presente sempre nel mio cinema. E poi ancora La Mano del Diavolo di Maurice Tourneur e La Bellezza del Diavolo di René Clair. Poi successivamente, sempre per la parte del film legata all’antichità, mi sono ispirato all’espressionismo tedesco di Fritz Lang e alla mitologia di Siegfried. E ho guardato anche al cinema giapponese. Film come Onibaba di Kaneto Shindō, per esempio, è stato molto importante, tanto nella colonna sonora quanto nell’immaginario del periodo antico. Poi negli anni più meravigliosi, quelli dei 25 anni di Conann, ritroviamo di nuovo Cocteau, con il suo Orfeo. Ma anche John Boorman con Excalibur.

E poi c’è la digressione urbana, dove è presente molto del cinema onirico degli anni ’90. Ad esempio un film che è stato fondamentale per me, una sorta di matrice estetica, che è Rusty il selvaggio di Coppola. C’è anche The Addiction di Abel Ferrara e Nadja di Michael Almereyda. Poi c’è tutta la sequenza bellica che richiama il cinema dell’est: Come and See di Klimov e La terza parte della notte di Żuławski. Infine, nell’epilogo, l’ispirazione è venuta principalmente dall’arte contemporanea, dalle performance di certi surrealisti, ma anche da film come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Peter Greenaway, La Grande Abbuffata di Marco Ferreri e Il fascino discreto della borghesia di Buñuel. Tutti questi capolavori sono presenti. Spero che il mio film li abbia ben digeriti.

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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Venezia 81: Pupi Avati torna al cinema horror con L’Orto Americano | Recensione

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La recensione del film “L’Orto Americano” – Newscinema.it

3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista de L’Orto Americano ha tutte le caratteristiche dei tipici personaggi di Pupi Avati: ha un candore e un’ingenuità tali da renderlo inadatto agli ambienti in cui si trova a vivere (che sia la provincia americana o la bassa padana) e soprattutto, essendo un romanziere che non è mai stato pubblicato, alle prese con un altro romanzo probabilmente destinato a rimanere anch’esso relegato nell’oblio, si inserisce in quell’ampio catalogo di sognatori insoddisfatti che il regista emiliano ha raccontato durante tutta la sua filmografia.

Si muove in una società che guarda con diffidenza chi racconta “storie”, che considera scrittori e narratori come dei bugiardi naturalmente predisposti a inventare e a ingannare. Ironicamente, si ritrova proprio ad indagare su di un caso – la sparizione misteriosa di una donna, data per morta – così aleatorio, data la scarsezza di prove e indizi tangibili, che non si può far altro che colmare le lacune con supposizioni, congetture, ipotesi.

Il giovane investigatore (un bravissimo Filippo Scotti) è uno che pensa che la realtà sia sempre troppo modesta, deludente e noiosa ed è per questo che ha l’abitudine di confidarsi con i morti, con le persone care che non ci sono più e che tiene sempre con sé in un vecchio raccoglitore di foto.

Immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che gli furono care lo tiene in vita e anche solo invocare i loro nomi lo fa sentire in un mondo già più grande di quello che è davvero.

L’Orto Americano: omaggio al cinema americano dei Cinquanta

Questo nuovo film di Pupi Avati, il primo in bianco e nero in una carriera estremamente prolifica, si confronta con il cinema che il regista ha amato in gioventù, quello americano degli anni Cinquanta che ha contribuito a plasmare il suo immaginario da regista.

L’Orto Americano, alla veneranda età di 85 anni, assomiglia infatti, con tutti i limiti del caso e tollerata una fastidiosa approssimazione in molti aspetti più tecnici, ad un film della maturità e non ad uno senile: un coraggioso tentativo di proseguire quel filone “americano” della sua filmografia che è sempre stato il più doloroso, disilluso, in cui veniva messo alla prova il sogno provinciale della “terra promessa” oltreoceano, saggiandone l’inconsistenza.

Anche ne L’Orto Americano, come in tutti i film di Avati, la Storia, in questo caso quella del secondo dopoguerra, lambisce soltanto il racconto, determinando il contesto entro il quale si dipanano i temi cari al regista: l’illusione e la delusione, la mortificazione inflitta dall’esperienza, la disperata resistenza ad ammettersi perdenti.

Ed è proprio quest’ultima a spingere il protagonista nella sua erratica ricerca, totalizzante e destinata fin dal principio a poter essere completata solo nel sogno, nella fantasia. Nella scrittura come nel cinema.

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Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta

Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.

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La recensione di Joker: Folie à Deux (Foto: warner bros.) – Newscinema.it

2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).

A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.

Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.

Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.

Joker: Folie à deux, un musical a metà

Joker, Folie à deux

vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.

Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?

La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.

Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).

Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.

Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.

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