Connect with us

Festival

RFF 13: Isabelle Huppert, conferenza stampa

Published

on

Isabelle Huppert, l’immensa attrice francese in occasione del ritiro del premio alla carriera durante la terza giornata della Festa del cinema di Roma, durante la conferenza stampa ha parlato a cuore aperto della sua carriera e del suo modo di approcciarsi alla recitazione. Imperativo da seguire: mai avere paura!

Lei è una fonte di ispirazione per molti attori e attrici, interpretato ruoli importanti e coraggiosi. Dove ha trovato il coraggio per poterlo fare?

Non solo giovani attori mi fanno i complimenti. I ruoli che ho interpretato non mi hanno mai fatto paura, ma sono comunque complessi e coraggiosi. Può far paura avere difficoltà, conflitti nella vita, ma l’unica cosa importante è vivere e lavorare in armonia.

Ultimamente ha lavorato nella serie The Romanoffs, cosa può dirci a riguardo?

The Romanoff è stato un lavoro molto intenso ed ho imparato anche un po’ di russo. Avevo visto Mad Man di Matthew Weiner e ho voluto lavorare fortemente con lui. Spesso si dice che dietro i Romanoff ci sia un mistero. I componenti sono morti, ma Mattew ha pensato bene di speculare su questa storia, creando 8 episodi diversi tra loro. Il mio personaggio è quello di una regista molto nervosa e trovo che nel mio episodio c’e qualcosa di barocco.

Oggi riceverà il premio alla carriera, cosa ha pensato quando le è stato comunicato? Qual è stata la prova più difficile che ha dovuto affrontare nella sua carriera?

Il teatro è una situazione più stressante rispetto al cinema, ma sono contenta di essermi cimentata anche in questo campo. Le difficoltà che si incontrano nel cinema vengono risolte dalla regia. Come attrice pongo molta fiducia nel cinema. Ricevere questo premio per me è una grande soddisfazione. Ricordatevi di non avere mai paura dell’ignoto. Il fatto che in teatro non si riproduce mai la stessa cosa, non mi spaventa, anzi lo trovo una cosa molto stimolante. Negli ultimi tempi il cinema è diventato una finestra sul mondo, per gli spettatori e per me.

Qual è il personaggio alla quale è più legata?

Mi sento vicina e non vicina ai personaggi che interpreto. “Non” mi sento vicina perché quello che accade in scena non mi succede nella vita reale. Invece “mi” sento vicina, perché comunque in tutto quello che rappresento metto una parte di me. Divido le attrici – e non solo – in due categorie: quelle vicino alla realtà e quelle più vicine alla fantasia. Resta il fatto che si tratta comunque di fiction.

Nel corso della sua carriera ha interpretato più di cento film. Come è riuscita a mantenere la sua identità?

È il cinema che permette di farlo. Così come avviene nel teatro è un confronto con se stessi. Non ci sono diverse recitazioni e soprattutto non si deve mai avere paura di quello che si andrà a recitare. Come disse Truffaut in riferimento a quando si gira un film: “ Il treno è partito e il paesaggio scorre”. Dobbiamo sempre essere noi stessi, perché è il cinema che deve raccontare.

Come ben sa, il grande Vittorio Taviani è venuto a mancare qualche mese fa. In merito, cosa ci può raccontare del rapporto con i Fratelli Taviani?

Ho un bellissimo ricordo di loro due, quando abbiamo girato in Toscana. Siamo stati in luoghi bellissimi e ricordo una dolcezza e bravura unica di Paolo e Vittorio.Erano due persone con una sola testa.

Il mio amore più grande?! Il cinema. Passione che ho voluto approfondire all’università, conseguendo la laurea magistrale in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale a Salerno. I miei registi preferiti: Stanley Kubrick, Quentin Tarantino e Mario Monicelli. I film di Ferzan Ozpetek e le serie tv turche sono il mio punto debole.

Festival

Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta

Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.

Published

on

La recensione di Joker: Folie à Deux (Foto: warner bros.) – Newscinema.it

2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).

A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.

Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.

Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.

Joker: Folie à deux, un musical a metà

Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.

Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?

La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.

Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).

Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.

Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.

Continue Reading

Festival

Venezia 81 | Horizon: Capitolo 2, prosegue l’epica e ambiziosa saga di Kevin Costner

Il secondo capitolo della “American saga” ideata, diretta e prodotta da Kevin Costner prosegue le tante storie aperte nel primo capitolo. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

Published

on

La recensione di Horizon 2 (Foto: ufficio stampa) – Newscinema.it

Venezia 81 | Horizon: Capitolo 2, prosegue l’epica e ambiziosa saga di Kevin Costner
3.1 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

È finalmente chiaro, con il secondo capitolo di questa “American saga”, in cui cominciano ad avere una direzione più precisa molte delle traiettorie tracciate nel primo, che l’epopea western di Kevin Costner è fatta soprattutto di attese, di informazioni e accadimenti dosati in tempi lunghissimi, di personaggi che vengono solamente annunciati, declinati al futuro in un racconto che nessuno sa mai se effettivamente arriverà al punto di farceli conoscere davvero, in maniera approfondita ed esaustiva.

Ci sono infatti luoghi e situazioni destinati all’oscurità, a cominciare dalla stessa Horizon del titolo, città che rimane ancora un miraggio, anche per lo spettatore. Un vicolo cieco, una chimera pubblicizzata da un volantino che la evoca con tragica ironia.

Ci sono linee della narrazione che necessitano di essere ricomposte e altre che vengono drasticamente interrotte (quella dei cacciatori di taglie di Jeff Fahey, così come quella del tenente Sam Worthington). È un teatro di fantasmi quello di Costner e non è un caso che questo secondo episodio si apra con le immagini dell’uomo da cui dipende tutta la saga, quello che ha spalancato il sogno di una nuova città da costruire dal nulla, ovvero il mister Pickering di Giovanni Ribisi.

Lo vediamo nell’incipit e poi lo ritroviamo nell’ultima scena, come anticipazione del prossimo capitolo, come uno spettro che trascina con sé oscuri presagi. Simbolo dell’arroganza del capitale o sfacciato genio che gioca con il destino degli uomini?

È una delle tante domande che rimangono inevase anche in questo nuovo film, interessato specialmente a indagare i meccanismi che regolano la vita in comunità e le relazioni del singolo con il gruppo. Chiaramente – e non è una sorpresa per chi ha visto il primo capitolo – lo fa con logiche che sono quelle del cinema più classico (più vecchio, anche, potremmo dire), con quei codici morali ormai totalmente superati e con quella concezione un po’ riduttiva delle minoranze e della femminilità.

Horizon | il secondo capitolo del sogno di Costner

Quello che veramente sta a cuore a Kevin Costner è raccontare lo spazio, la vastità di un continente che è ostile innanzitutto per le sue dimensioni, in cui anche semplicemente attraversarlo diventa un’avventura angosciante, straziante, faticosa.

Nulla in Horizon è piacevole o di sollievo: non lo sono i paesaggi, con cui i protagonisti hanno invece una relazione problematica, e non lo sono le altre persone, a cui spesso si è legati esclusivamente da ragioni utilitaristiche. E anche quando c’è di mezzo l’amore, l’affetto, questo è innanzitutto una limitazione, qualcosa nel nome del quale bisogna fare dei sacrifici dolorosi.

Un freno che la realtà pone alle proprie ambizioni e non uno strumento di liberazione ed emancipazione. Non c’è nessuna legge di giustizia in queste distesa di terra, ma solo la legge della convenienza, la necessità di calcolare cosa è meglio fare e con chi è meglio legare per avere più possibilità di sopravvivenza.

“Giusto” e “sbagliato” sono concetti che nascono con l’organizzazione sociale, con la sedentarietà, e che non esistono ancora quando ci si muove in carovana. L’etica, la morale, è volubile come il cielo che sovrasta i carri di questi pionieri ed è qualcosa di cui si può discutere solamente quando ci si è “sistemati”, quando si ha un tetto sopra la propria testa e una minima sicurezza del proprio futuro.

È quindi ancora più chiaro in questo secondo capitolo che a Costner non servono troppi “villain”, nemici da affrontare a colpi di pistola, perché ogni cosa è già una lotta: la convivenza forzata con degli sconosciuti, il viaggio in territori ignoti che non sono ancora stati plasmati dall’uomo per risultare accoglienti, abitabili. Rimane però, ancora più intensa, dopo la conclusione di questo secondo capitolo, la sensazione di trovarsi davanti a un progetto più adatto alla televisione che al cinema.

E in qualche modo Costner, che questo Horizon lo ha sempre immaginato come un’epopea cinematografica, pensata per il buio della sala, gioca ironicamente su questa aspettativa tradita, alimentando la bulimia del pubblico sempre più ben disposto verso la serialità, con un trailer di “ciò che verrà” nei prossimi episodi che, esattamente come accadeva alla fine del primo capitolo, promette sempre di più di quello che si è già visto, rimanda l’azione e la spettacolarità a un secondo momento. Come a dire: avrete quello che volete.

Gli inseguimenti, gli assalti, i duelli, le sparatorie. Ma anche questa, forse, come il volantino di Horizon, sembra una promessa destinata a rimanere tale, una pubblicità ironicamente ingannevole nei confronti di un pubblico che – il risultato al botteghino lo dimostra – chiede altro. Un gioco di rimandi anche con la serie tv (Yellowstone) che lo ha fatto tornare popolare e che ha abbondato per dedicarsi al Cinema con la “C” maiuscola. Che assomiglia sempre di più ad altro.

Continue Reading

Festival

Venezia 81: Takeshi Kitano fa ridere il festival con il nuovo Broken Rage

Takeshi Kitano torna a riflettere sul cinema e su sé stesso con Broken Rage, divertissement teorico che annulla definitivamente la separazione tra Kitano regista, autore, comico e performer.

Published

on

Venezia 81: Takeshi Kitano fa ridere il festival con il nuovo Broken Rage
4 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il nuovo Broken Rage di Takeshi Kitano è una lezione di poco più di un’ora su come violenza e umorismo possano essere linguaggi che seguono la stessa grammatica cinematografica e sul modo in cui una stessa storia possa essere raccontata con i codici del primo o del secondo. Due film in uno: uno yakuza movie appena abbozzato, senile, di una semplicità e rapidità che sembrano quelle dell’ultimo Eastwood, e poi quello stesso film parodiato, riproposto quasi frame-by-frame ma in chiave comica.

Uno specchio che rivela cosa serve (e cosa no) per far funzionare il dramma e la commedia. A cosa si può rinunciare e cosa invece necessariamente deve essere lì affinché il meccanismo narrativo giri senza incepparsi. Quale caratterizzazione debba avere il protagonista quando lo caliamo in contesti differenti: carismatico anti-eroe se si vuole raccontare una storia di redenzione o, nel caso della commedia, eterno sconfitto con cui empatizzare, gangster per sua natura “fantozziano”, tapino costretto ad obbedire al padrone di turno, di cui è un miserabile e ridicolo sottoposto.

Un film che, in ogni caso, sintetizza una carriera che dalla metà in poi si è fatta parodia consapevole di sé stessa e ha accettato la comicità come elemento insostituibile, anche quando si raccontano storie che non la prevederebbero (si pensi al recente Kubi).

D’altronde anche nella prima metà di Broken Rage, che teoricamente dovrebbe essere quella più “seria” – la storia che lo spettatore deve conoscere per poi comprendere la relativa parodia – è impossibile, in alcuni casi, trattenere la risata, a dimostrazione di una irrisolvibile commistione tra i due codici, quello del dramma e della commedia, e di una maschera, quella di Kitano, che oramai è impossibile associare esclusivamente all’autore di Hana-Bi, Sonatine, Violent Cop, senza considerare il mattatore televisivo, lo showman compiaciuto anche del suo ruolo di giullare.

Broken Rage | il ritorno del Kitano comico

Con una messa in scena ridotta ai minimi termini, Kitano elimina tutto ciò che non è gag e mette a nudo il gesto comico, che, come ci ha spiegato lungo tutta la sua filmografia, non è così differente dal gesto violento. Entrambi, infatti, nascono dalla volontà di imporre qualcosa su qualcuno: il proprio potere, il proprio dominio, sia attraverso l’afflizione di dolore fisico sul corpo altrui, sia attraverso “forzature” e stratagemmi di coercizione (narrativa, per lo meno) che inducono la risata quasi istantaneamente, come meccanismo di reazione psico-fisico impossibile da controllare e da tenere a bada.

Nei due casi, quindi, si tratta sempre di una manipolazione, di una prepotenza che ha effetti spesso molto simili: lo shock, lo spaesamento, la confusione. Violenza e umorismo funzionano meglio quando inaspettati, ingiustificati, come manifestazioni parossistiche che colgono alla sprovvista.

Deliberatamente Kitano, specialmente nella seconda metà, quella comica, si disinteressa della coerenza logica e della coerenza cinematografica, esibendo, senza nasconderli, “errori” di montaggio, concedendosi soluzioni narrative talmente sciatte e sbrigative che in altri film non sarebbero accettabili e che qui invece – e la cosa viene subito fatta comprendere allo spettatore – risultano tollerabili perché tutto è sacrificato sull’altare della gag, dell’umorismo come obiettivo ultimo a cui tendere.

Continue Reading

Facebook

Popolari