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RFF: Kelsey Grammer si racconta e parla di Boss

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In questa città il potere non è qualcosa è l’unica cosa”. Una Chicago assetata di potere guidata da un uomo pronto a tutto pur di continuare a detenere il ruolo, ambitissimo, di politico più influente del territorio. È questa la dimensione in cui si muove Boss, la nuova serie tv diretta da Gus VanSant, ideata da Farhad Safinia e interpretata da Kelsey Grammer, nel ruolo del sindaco Thomas Kane, spietato e senza scrupoli. Sebbene Kane tenga tutti in pugno, nulla può contro la malattia neurologica degenerativa di cui scopre di essere affetto. È proprio Kelsey Grammer, attore dall’incredibile curriculum cinematografico e televisivo, a presentare Boss al Roma Fiction Fest in una masterclass a dir poco interessante che anticipa la messa in onda italiana della serie prevista per giovedì sera, in prima serata, su Rai 3.

Lei ha fatto una transizione pazzesca ed è uno dei più grandi cattivi presenti in tv in questo momento. Cosa l’ha spinta ad intraprendere questa transizione?

Questo progetto di Boss mi è venuto in mente circa tre anni fa mentre ero a prendere un drink con lo sceneggiatore. Abbiamo parlato del fatto che entrambi avevamo una passione pazzesca per il Re Lear di Shakespeare e volevamo entrambi trasformarlo in una serie tv. Nei mesi successivi abbiamo parlato della storia che avremmo voluto girare: entrambi eravamo affascinati dai regni, dagli intrighi che circondano gli ambienti reali. Queste dinamiche che hanno questa natura reale potevano essere tradotti in una dimensione moderna. Chicago è corrotta e quindi l’abbiamo trasformata in questo luogo in cui il pubblico avrebbe potuto pensare alla politica. La ragione personale per cui ho realizzato questa opera drammatica, dopo anni di commedie, deriva dal fatto che faccio parte della vita del pubblico americano, sono di loro proprietà in un certo senso e volevo liberarmi del peso della mia carriera nell’ambito delle commedie. Abbiamo cominciato a sviluppare l’idea di fare qualcosa di drammatico. Abbiamo realizzato qualcosa di costruttivo, in un certo senso shakespeariano.

Leggendo la sua biografia, Shakespeare è una figura ricorrente. Ci racconta come è iniziata la sua carriera di attore così importante e di enorme talento.

L’esperienza di vita è la ricerca di maggiore valore che facciamo. I giovani attori in genere hanno delle ispirazioni dalla persone che le circondano. Suppongo che il trucco sia quello di aprirsi a quella che è la situazione e avere fiducia nel materiale che si ha. Quando avevo 11 anni, mio nonno è morto e io stavo cercando di capire cosa sarebbe diventata la mia vita dopo. Era l’unica figura maschile nella mia vita e stavo scoprendo la mia vita di futuro adulto. Ho letto il Giulio Cesare di Shakespeare e ho scoperto lo stoicismo e quelle parole hanno iniziato ad avere un senso per me. Mi dicevo: devo essere padrone del mio destino e le tragedie non devono compromettere quello che sono nella mia vita. Shakespeare mi ha influenzato molto. Ho fatto il mio primo spettacolo quando avevo 17 anni e ho pensato che quella era una cosa che mi sarebbe piaciuto approfondire nella vita. Penso che la base di questo lavoro sia l’osservazione della vita umana e comunicarla attraverso se stessi agli altri.

Cosa l’ha guidata verso la televisione e il cinema, avendo iniziato a teatro?

Credo che la varietà sia necessaria. Mi piaceva provare storie e mezzi espressivi diversi. Ancora non ho finito di raccontare le storie e scelgo modi diversi per farlo. Ho scelto la televisione quando è nata la mia prima figlia e avevo bisogno di soldi. Non è un crimine fare soldi ed essere creativi in America. Ho sentito di voler fare televisione. La tv ti rende molto famoso se riesci a rimanerci e questa possibilità mi ha concesso di ritagliarmi la mia impressione sulle parole scritte, di dare un significato diverso alle parole. Se gli autori si fidano degli attori, ti concedono le loro parole, si fidano di te. Quando giravamo Boss, l’autore aveva una scena di cui io non ero d’accordo, si è fidato e mi ha ringraziato.

Negli anni è diventato anche produttore di alcuni show. Perché questo passaggio? Per avere un controllo creativo di quello che fa?

La produzione è consequenziale al fatto che voglio raccontare storie e non potendo recitare tutto, posso almeno produrre. Ho prodotto Medium, è una mia esperienza personale sulla vita dopo la morte e questo è uno show sulla comunicazione con i morti che io ritengo essere un dono. Sono stato colpito da una storia reale di questo genere e quindi ho deciso di trasformare quella storia in uno show.

Come sceglie sia i ruoli da interpretare che gli show da produrre?

Il mio criterio principale nello scegliere una storia dipende dal fatto se possa sembrare vera oppure no. Non se sia reale ma se possa sembrare tale. Preferisco una cosa che sembri vera ma non naturalistica. Mi piacciono le storie forti, le situazioni estreme. È ovvio che la commedia sia più facile da realizzare perché devi far sorridere le persone, il dramma invece è più difficile perché devi entrare nella vita delle persone, e in quei drammi. Mi interessa la sorpresa di quel che faccio, di quel racconto. È importante che una cosa mi sembri vera.

C’è un ruolo televisivo che le sarebbe piaciuto interpretare?

Mi piacerebbe fare un western. Mi piacerebbe interpretare Sean Connery. Avrei potuto fare Amleto. In realtà dal punto di vista televisivo non c’è un granché.

L’impressione è che ci siano due tendenze per quanto riguarda le serie: una è quella della Gran Bretagna con grandi opere in costume, l’altra è quella delle fiction che narrano la nostra contemporaneità che in generale non ci ispirano simpatia e affezione. Questo avviene perché stiamo attraversando la crisi di cui si racconta?

Abbiamo scelto qualcosa che non è contemporaneo in un mondo contemporaneo. È il mezzo stesso a far funzionare la storia. La storia che raccontiamo non è relativa alla crisi economica, ma è relativa alla crisi umana. Si racconta dell’ascesa di un essere umano in essere umano completo. La domanda di questo uomo è quanto debba ancora vivere. Scopriamo una crisi personale in cui il pubblico possa identificarsi. La grande arte dovrebbe porre delle domande e farle porre al pubblico.

Il nome Kane è puramente casuale o c’è un riferimento a Orson Welles?

Il riferimento è intenzionale ed è un omaggio. Kane è un re e questo ci riporta a dei riferimenti romani, a come un cittadino possa salire a ricoprire ruoli maggiori e più autorevoli.

I drammi politici durante il periodo di elezioni rappresentano qualcosa di diverso per la stampa e per il pubblico. Pensa che il cinema possa essere vicino alla propaganda in periodo di elezione?

Penso che Hollywood sia colpevole e non certo io. Abbiamo scelto una storia in cui nessuno schieramento potesse identificarsi. Abbiamo individuato il canovaccio della storia senza che questo riguardasse la politica. Sicuramente a Hollywood si produce proprio per questioni di propaganda.

La prima cosa che si pensa, guardando Boss, è che lei interpreti un uomo malato e cattivo. Entrando nella storia si cambia idea. Quando ha cominciato a leggere la sceneggiatura aveva paura di entrare troppo nel ruolo del cattivo e di allontanare le persone rispetto alla sua carriera precedente? Nella sua carriera d’attore ha mai pensato di cambiare il suo lavoro?

Non ho mai avuto paura di interpretare un personaggio così cattivo. Se non fosse così cattivo non ci sarebbe speranza di redimerlo. Nell’esperienza in cui ho fatto Cassio, ho scoperto che Iago è di fondo molto gradevole. Il pubblico rimane affascinato da lui. Si può parteggiare per le sue macchinazioni. Non mi sono mai preoccupato di interpretare il cattivo per il rischio di alienarmi il pubblico. Da un punto di vista della carriera, fare l’attore è stata una scelta consapevole.

Da un po’ di anni la tv americana è molto avanti rispetto al cinema proponendo grandi idee, grandi programmi e grandi attori. Secondo lei perché la tv americana è così affascinante e coraggiosa? In prospettiva come si evolverà la situazione?

Gli scrittori vanno verso la televisione perché gli si concede la libertà necessaria. I film devono fare soldi. Oggi la tv si è evoluta perché ha avuto la possibilità di raccontare tante storie tutte diverse. I network non sono così liberi ma è senza dubbio un terreno fertile per gli autori. Questo ha dato molta libertà agli attori.

Quale percezione ha avuto il pubblico americano e coloro che realizzano i prodotti seriali delle serie tv?

I realizzatori di cinema in America ancora guardano la televisione dall’alto al basso. Il grande scopo era essere la star del cinema. Da quando il pubblico si è orientato anche verso altri sbocchi la dimensione è cambiata e la linea è sfumata. Forse questa cosa sta cambiando. Però, un pubblico intelligente vuole essere intrattenuto pure arrendendosi a qualcosa di poco elevato. Tutti ricevono quello che cercano ma ci sono molte cose che non vengono neanche viste. Quindi possiamo fare un episodio televisivo molto costoso con una qualità ottima ma molto spesso le persone non sanno utilizzare bene i dollari.

Che ne pensa della dimenticanza di Boss agli Emmy Awards 2012?

Anche io ho trovato che sia stata una svista terribile. Sto ancora cercando di digerire la cosa. Credo di aver realizzato uno dei prodotti migliori della mia carriera.

Laureata in Storia e Conservazione del Patrimonio Artistico, mi dedico alle mie due grandi passioni: l’arte e la scrittura. L’ambizione? Scrivere di arte. E’ quello che provo a fare da qualche anno, raccontando sul web il criptico eppure essenziale mondo artistico. A 23 anni i sogni vanno alimentati dalle speranze!

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Berlinale 73: Inside, la recensione | Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

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Inside film recensione

La recensione di Inside – Foto: Newscinema.it

Presentato al 73° Festival di Berlino, Inside conta 105’ di durata e fa parte della sezione Panorama.

Regia e soggetto sono a cura di Vasilis Katsoupis mentre la sceneggiatura di Inside è firmata da Ben Hopkins. Il protagonista assoluto di questo thriller dalle sfumature comedy-drama è Willem Dafoe e verrà distribuito nelle sale statunitensi il 10 marzo 2023, attendiamo la conferma italiana.

La trama di Inside

Il ladro d’arte Nemo rimane intrappolato in un attico a Times Square durante un furto che finisce male. Con il passare dei giorni il suo stato mentale comincia a peggiorare e dovendo combattere con la fame e la sete, dovrà escogitare un piano per trovare una via di fuga, per restare lucido e per adattarsi alle disagianti condizioni, ormai inevitabili.

Il one man show di Willem Dafoe

Ci sono film che abbracciano il proprio protagonista cucendogli addosso un ruolo perfetto e imbastendo intorno a lui un ambiente congeniale che punta al risultato sperato. Mai come in questo caso la definizione può essere più appropriata, questo film è Willem Dafoe.

Un uomo imprigionato senza via di fuga che dopo averle provate tutte inizia a testare i propri limiti, finendo per immaginare soluzioni e fantasticare tra folli visioni. Il ladro lo sappiamo, è una figura negativa che solitamente dovremmo identificare come antagonista ma che qui trova un risvolto opposto.

Nemo è un uomo che non avverti mai come ostile, ti trovi ad empatizzare totalmente con lui e quasi ti dimentichi che si meriti di essere imprigionato lì e magari anche scoperto, in quanto giunto in quella situazione per qualcosa che sostanzialmente non andava fatto.

Willem Dafoe Inside

Willem Dafoe in Inside – Foto: Berlinale 73

Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

Freddo glaciale o caldo torrido, mancanza di una fonte d’acqua, istinto di sopravvivenza e di adattamento, di certo quello che a prima vista pare essere un attico pieno di comfort, diventa in un attimo un ambiente avverso dove la tecnologia, da cui ormai dipendiamo, da utile si fa nemica.

Questa interessantissima opera filmica è capace di diversificare la propria direzione, partendo da qualcosa di inizialmente molto concreto e arrivando a compiere un viaggio più concettuale. Già capace di affascinare al suo primo lungometraggio dunque, il regista greco pare avere le idee ben chiare sulla direzione verso cui portare il proprio cinema.

Un po’ come il connazionale Yorgos Lanthimos, percorre una strada che parte dal realismo e finisce nella criptica isola del sottotesto ermetico, quello in cui è necessario un lavoro mentale da parte dello spettatore per essere elaborato al meglio.

Inno all’arte

L’arte e la sua realizzazione, l’inventiva, la ricerca di soluzioni che stimolano la creatività sfociando in qualcosa di ricercato, di contemporaneo, di artisticamente riflessivo. Muffa, sudore, rabbia, rassegnazione, tanti sono gli elementi simbolici o le sensazioni percepite, che portano ad un unica domanda: fin dove si può spingere un uomo?

Un essere umano in trappola, messo a dura prova dalla situazione che involontariamente si trova a vivere, sopraffatto dal proprio istinto, troverà il modo di far pace con sé stesso e con l’ambiente circostante in un equilibrio quasi spirituale. Molto silenzioso Dafoe gioca con sé stesso, recita per sottrazione, talvolta interagendo soltanto con la mimica facciale, altre con gli oggetti presenti in scena o qua e là parlando un divertente italiano.

Inside film 2023

Inside film – Foto: Newscinema.it

Non mancano infatti passaggi simpatici, dalla Macarena agli easter egg brillanti disseminati in ogni dove, che grazie ad un ottimo lavoro di montaggio esaltano ancor di più il ritmo e il talento dell’attore, chiamato a reggere sulle proprie spalle l’intero lungometraggio.

In conclusione ci troviamo immersi in un mondo nascosto tra condizioni critiche poco rassicuranti e ostacoli decisamente ingombranti, che pulsa però quasi inconsapevolmente di innata genialità artistica e si fa metafora di quello che Nemo sta pian piano realizzando, come fosse un inception di strutture a matrioska. Un inno all’arte dunque, alle menti creative e al prepotente ma essenziale concetto “Non c’è creazione senza distruzione”.

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Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name

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Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name
3.6 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora
Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Suzume, il nuovo film d’animazione del regista di Your Name si rivela un’opera avvincente, intrigante e sorprendente, presentata in concorso alla 73esima edizione della Berlinale.

È stato presentato a Berlino il nuovo film d’animazione del regista giapponese Makoto Shinkai, che nel 2016, con Your Name, aveva commosso milioni di spettatori in tutto il mondo, fino a guadagnarsi la stima che si riserva ai nuovi maestri e, in alcuni casi, persino lusinghieri paragoni con Hayao Miyazaki.

Il suo nuovo Suzume è un’opera avvincente, intrigante, sconcertante: un film catastrofico sci-fi spettacolare che si fa saggio sulla natura e la politica, attraversato da elementi comici folli e stravaganti che in alcuni momenti ne deviano la narrazione e ne cambiano drasticamente il tono.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Già in Your Name, il regista aveva inventato un disastro – un enorme impatto meteorico – quasi sicuramente ispirato al terremoto del Tōhoku del 2011. Con Suzume, adesso, fa esplicito riferimento alle scosse e allo tsunami del 3/11 nel prologo del film, quando la protagonista si ritrova in quella che sembra ESSERE una dimensione parallela in cui regna una devastazione surreale, con case ridotte in macerie e barche spettrali incagliate dopo misteriosi naufragi.

Il resto del film si svolge circa un decennio dopo, a partire da Kyushu (purtroppo, isola che è stata colpita da un terremoto di magnitudo 5,6 appena sei settimane prima dell’uscita del film, dando ulteriore rilevanza e attualità al suo messaggio). Una mattina, in sella alla sua bicicletta, Suzume incrocia un bel giovane che cammina nella direzione opposta, e con uno stratagemma visivo preso in prestito dal cinema live action, il tempo rallenta e la regia cattura la scintilla che scatta romantica tra loro.

Lo straniero si chiama Souta Manakata e si presenta a Suzume come un “Closer”, ovvero qualcuno incaricato di chiudere una serie di portali mistici per evitare che gigantesche creatura fuggano attraverso essi e continuino a causare disastri in tutto il Paese (vermi in computer grafica che rivelano la loro pericolosità e la loro alterità anche come corpi estranei rispetto al gentile tratto bidimensionale del film). Souta, però, all’inizio del viaggio si trasforma in una sedia per bambini a tre gambe: un’idea stravagante per un compagno di viaggio che si rivela però sorprendentemente efficace.

Il film, infatti, riesce a rendere Souta molto più espressivo nella sua semplice forma geometrica di sedia rispetto a quando, da ragazzo in carne ed ossa, non può che essere il generico oggetto d’amore della protagonista. E anche in questo rifiuto di un sentimentalismo molto vecchio e abusato sta la modernità del film di Shinkai, che stavolta decide di dare un tocco contemporaneo e giovanile al suo film collaborando nuovamente con la rock band Radwimps, affiancata qui dalla strumentazione del compositore Kazuma Jinnouchi, e incorporando nella narrazione la tecnologia moderna e l’utilizzo dei social network. Lo stesso design del gatto Daijin quasi certamente ricorderà ai fan più giovani quello cattivo dello show Puella Magi Madoka Magica.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Strutturato come un road movie, Suzume invita il pubblico ad un tour del Giappone, sorvolando sui punti di riferimento familiari, come il Monte Fuji, e concentrandosi invece sui luoghi che rappresentano il patrimonio in via di estinzione del Paese del Sol Levante. Ma è la direzione dell’animazione di Kenichi Tsuchiya, che si impone con i suoi dettagli sbalorditivi, che rendono Suzume un oggetto di misteriosa bellezza nei suoi cieli notturni e negli skyline pittorici delle diverse città. La protagonista entra in connessione con il pubblico come un’adolescente in movimento e in subbuglio, comandando il percorso emotivo della narrazione.

“Il peso dei sentimenti delle persone è ciò che soffoca la Terra”, dice Souta nel film: ed è questo il manifesto di Shinkai su come la vita interiore e la topografia giapponese siano strettamente dipendenti l’una dall’altra. E proprio come nel film The Garden of Words, in cui aveva già spiegato la sua tesi emotiva attraverso la poesia Man’yōshū, Suzume è uno sforzo che cerca di restituire la complessità di un mondo interiore con umorismo e pathos, legandolo alle sorti della Terra, del mondo che sta fuori.

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Berlinale 73 | Infinity Pool, Mia Goth: “Non mi sottraggo mai davanti a questo tipo di film”

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Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Mia Goth e Alexander Skarsgard hanno rivelato di essersi divertiti molto a realizzare Infinity Pool, il thriller “provocatorio” e “viscerale” del regista canadese Brandon Cronenberg, presentato in anteprima europea alla 73esima Berlinale.

È stato presentato in anteprima europea alla 73esima edizione della Berlinale l’atteso Infinity Pool, nuovo controverso thriller diretto da Brandon Cronenberg. Il regista ne ha parlato insieme ai protagonisti Mia Goth e Alexander Skarsgard in una conferenza stampa con i giornalisti, approfondendo le tematiche del film e affrontando le controversie legate ad esso.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

L’attrice britannica, oggi famosa specialmente per essere protagonista e co-creatrice della trilogia horror di Ti West cominciata con X – A Sexy Horror Story, ha detto di aver apprezzato molto l’aspetto “provocatorio” del suo personaggio. “Non mi sottraggo mai a questo tipo di materiale e a questo tipo di film”, ha detto ai giornalisti.

“Trovo che all’interno di questo tipo di storie ci siano personaggi davvero impegnativi che mi permettono di esplorare sfaccettature di me stessa che non mi sento molto a mio agio a rivelare al di fuori di un set. Gabi è un personaggio molto vario e dinamico. All’inizio è una donna piuttosto dolce e senza pretese e alla fine del film la vediamo invece completamente selvaggia e scardinata, solo primordiale”, ha spiegato Goth.

Il personaggio di Skarsgard, invece, è uno scrittore in difficoltà, burattino di un gioco perverso e pericoloso. “Si capisce già nel suo primo incontro con Gabi che non gli ci vuole molto per seguirla come un cane affamato”, ha affermato l’attore. “È stato abbastanza divertente giocarci con quanto fosse credulone e quanto fosse facile manipolarlo. Volevo uscire dalla mia testa… buttarmi lì dentro, in questo mondo, e vedere cosa sarebbe successo. È un film così viscerale, in cui succedono tante cose”.

I due personaggi, però, sono uno lo specchio dell’altro, come suggerito da Goth. “Penso che Gabi possa ritrovare molto di se stessa in James. Ed è anche per via di questo riconoscimento che le è così facile rivoltarlo come un calzino. Perché hanno lo stesso background culturale, lo stesso status sociale e, cosa più importante, hanno entrambi una vita di insuccessi e di fallimenti. Hanno modi diversi di affrontare questa condizione, ma da dentro penso siano molto più simili di quanto sembri”, ha spiegato l’attrice.

Berlinale 73 | Brandon Cronenberg:“Un prossimo film tratto da Ballard”

Il film è in parte ispirato, per ammissione dello stesso regista, al romanzo di Super-Cannes di J. G. Ballard, pur non trattandosi di una vera e propria trasposizione fedele o ufficiale. “Adoro Ballard e in passato ho pensato spesso di adattare il suo libro per il cinema, ancora prima di realizzare Infinity Pool.

Quindi sicuramente c’è un po’ di questa influenza nel film. Non è la stessa cosa, ma sicuramente il mood è quello. Siamo attualmente in fase di trattativa con chi detiene i diritti di Super-Cannes per riuscire a realizzare un adattamento cinematografico nel prossimo futuro. Mi piacerebbe molto farlo”, ha annunciato il regista.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Di Infinity Pool si è parlato, e si continuerà a parlare, specialmente per le sue scene più esplicite e disturbanti. “Non trovo particolarmente utile avere degli intimacy coordinators (figure che garantiscono il benessere di attori e attrici che partecipano a scene di sesso o ad altre scene intime in un film) sul set”, ha dichiarato Mia Goth.

“E probabilmente questo è dovuto al fatto che ho sempre lavorato con registi fantastici: sensibili, gentili e professionali. Come appunto Brandon Cronenberg. Spesso è meglio girare la scena senza perdere troppo tempo a discutere di cosa si può o non si può fare. È una situazione che crea più imbarazzo che altro. Se c’è fiducia tra gli attori e con il regista, basta quello”.

Cronenberg ha poi scherzato sulle notizie apparse sui giornali relative a degli spettatori, nelle diverse presentazioni del film in giro per il mondo, che hanno abbandonato la sala dopo essersi sentiti male davanti alle scene più disturbanti: “In realtà, poche persone hanno lasciato la sala durante queste proiezioni. Devo dire che siamo un po’ delusi. Forse non abbiamo fatto un buon lavoro. Quando abbiamo mostrato il film ai nostri amici, pochissimi hanno riso davanti all’umorismo molto perverso della storia. E pensavamo di essere spacciati. Invece il pubblico sembra averlo compreso”.

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