Venezia 69. The Company you keep, conferenza stampa con Robert Redford e Shia LaBeouf

Presentato fuori concorso al Festival di Venezia, The Company you keep, il nuovo thriller in cui Robert Redford racconta la storia di un attivista del Weather Underground a caccia di un giornalista che ha scoperto la sua identità, sarà distribuito in Italia il prossimo 15 Novembre dalla 01 Distribution. Newscinema ha seguito per voi la conferenza stampa, tenutasi oggi pomeriggio a Venezia.

Signor Redford, cosa l’ha spinta a trarre il suo film dal libro di Neil Gordon?

R.R.: Sono rimasto affascinato da come viene narrato un pezzo di storia americana. Oggi, passato del tempo, si possono raccontare gli eventi leagti al Weather Underground, guardandoli da una certa distanza, poichè si tratta di periodi che ormai fanno parte della storia. A livello personale invece, sono stato attratto dall’idea che ci potessero essere delle somiglianze con I Miserbaili.

Come mai la scelta del cast è ricaduta su questi ottimi attori, famosi da decenni e su quelli della nuova generazione come Shia LaBeouf?

R.R.: La scelta che ho fatto non è dipesa da una questione di età, ma di qualità. Il cast di The Company you keep è composto da ottime persone prima che da grandi professionisti. Anche Shia ovviamente è stato scelto sulla base delle stesse ragioni.

Nel film c’è una dicotomia fra generazione più vecchia, radicale, e quella più giovane. Non pensate che forse la nuova generazione stia a sua volta ereditando il radicalismo degli anni ’60?

Shia LaBeouf : Penso che una cosa faccia la differenza, ossia non abbiamo la stessa posta in gioco. Ogni generazione ha i suoi momenti di ribellione, scontento ed ha anche la possibilità di reagire. Le modalità e i tempi possono essere diversi, ma le occasioni per ribellarsi ci saranno sempre.

Signor Redford, che periodo attraversava e cosa pensava quando è accaduto il fatto che racconta nel film?

R.R.: Sostenevo la causa di chi si ribellava, pensavo che avessero dei buoni motivi per farlo. Pensavo però anche che la causa sarebbe stata divorata dall’ego dei suoi stessi sostenitori, che avrebbero finito con il rivoltarsi gli uni contro gli altri. Era la mia opinione da outsider, infatti in quel periodo mi interessavno più la famiglia e la carriera della politica.

Robert lei guida il Sundance Film Festival e questo film, che mette a confronto due generazioni diverse, sembra avere un po’ quel taglio impegnato, tipico della sua manifestazione. Possiamo quindi parlare di questa pellicola come di una riflessione impegnata sulla politica?

R.R.: Penso che le generazioni si comportino in base al momento che vivono. In tema di giornalismo, all’epoca si trovava in condizioni diverse, senza le tecnologie di oggi. Quando mille canali cercano di propinarvela, diventa più difficile trovare la verità, ma la parte fondamentale è sempre la stessa: ci sarà sempre necessità di avere una riforma delle persone che rappresentano la parte pubblica. Penso che il cambiamento sia una cosa sana, che vediamo nella situazione attuale degli Stati Uniti: Obama pensa che il cambiamento sia inevitabile, l’altra parte ha paura del cambiamento e fa qualsiasi cosa per evitarlo. La situazione è diventata molto difficile nella politica statunitense e la cosa mi rattrista.

Che cosa pensate del giornalismo e giornalisti oggi?

S.L.: Ho studiato Tutti gli uomini del Presidente e mescolato i caratteri dei due protagonisti. Oggi il giornalismo si basa sullo scoop: la storia che viene pubblicata per prima vince. Ma quello che bisogna capire è quando entra in gioco l’etica e si ferma la necessità raccontare la storia.

R.R.: Mettere in scena oggi il personaggio di Shia mi ha permesso di mettere in evidenza somiglianze e differenze fra i due tipi di giornalismo. Se si guarda più attentamente c’è anche una somiglianza: di solito alla base di tutto c’è l’ego, alla base della ricerca della veirtà c’è la gloria che alimenta l’ego. La ricerca della verità è finalizzata ad ottenere l’ammirazione degli altri, quindi la gloria e c’è un legame fra Tutti gli uomini del Presidente che ha a che fare proprio con l’ego.

Visto che le piace venire spesso in Europa signor Redford, pensa che il pubblico europeo sia culturalmente più interessato  alle tematiche che affronta nel suo film?

R.R.: Invidio moltissimo l’Europa per la sua storia, mentre gli USA sono un paese più giovane e pieno di gloria, sono ben lieto di esserne parte. Ma è un dato di fatto che gli USA abbiano meno anni rispetto all’Europa, dove sento proprio la storia. Che una città come Venezia sopravviva è un miracolo. Per ciò che riguarda i giovani e meno giovani, e questo vale tanto per gli Stati Uniti quanto per l’Europa, penso che le nuove generazioni, che considero davvero fantastiche, soprattutto quella che verrà immediatamente dopo di noi, abbiano le potenzialità per imporsi, ma la corruzione che abbiamo introdotto nelle istituzioni, fa sì che non lasciamo loro nulla di concreto in cui impegnarsi.

Lei Redford è riuscito a parlare con gli ex membri di Weather Underground?

R.R.: Non sono riuscito a parlare con nessuno di loro, sono riuscito solo a fare un con uno dei figli, un ragazzo che è stato cresciuto come un fuggiasco. Nonostante tutti i riferimenti politici che ho fatto, il film tratta di cosa farà un uomo per conservare l’amore della figlia, in questo ho trovato una forte analogia con I Miserabili.

Parliamo di generazione: molti registi scelgono Shia come interprete della nuova generazione. Come mai è considerato l’icona della nuova generazione?

R.R.: Beh è un attore brillante con l’energia e l’intelletto giusto. Speravo proprio che accettasse la parte che gli ho proposto.

S.L.: Sono stato senza dubbio baciato dalla fortuna.

In Germania ci sono state molte manifestazioni nello stesso periodo in cui il suo film è ambientato e spesso si tende ad identificalo con il terrorismo, perché invece lei è stato così obiettivo andando contro questa percezione pubblica?

R.R.: Lei si riferisce alla banda Baader Meinhof immagino. Non so bene, posso invece parlare bene del radicalismo nel mio paese: secondo me le loro intenzioni erano giustificate quando pensavano “non possiamo dire di essere americano se rifiutiamo la libertà di parola, di espressione e le pari opportunità”. Loro andavano contro le ipocrisie americane, ciò che veniva soffocato invece di essere favorito. Io in realtà ero interessato a mettere in scena i risultati dei trent’anni successivi, periodo in cui è ambientato il film. Questa è la complicazione che mi ha interessato, ossia l’emozione al di sotto delle cause che sostenevano, trent’ anni dopo.

Nel suo film c’è una specie di dichiarazione, che si potrebbe riassumere in questo modo: inutile impegnarsi in una giusta causa, perchè i ricchi sono più forti e più grandi. Lo pensa davvero?

R.R.: Secondo me non siamo inutili, altrimenti non saremmo qu. Vedo nella storia le stesse condizioni ed errori che si ripetono. Certe cose rimarranno sempre uguali, ci sarà sempre bisogno di trasformare un’ingiustizia. Ci sarà sempre un’area grigia. Comunque è vero i super ricchi sopravvivono a prescindere da quello che si faccia per lottare contro Wall Street, cheè sempre uguale a se stessa. Ma se si osserva l’attuale dibattito politico negli Stati Uniti, si nota che i “non ricchi” si lamenta seriamente.

Shia hai mai pensato di darti alla regia?

S. L.: Cerco di essere bravo in un’unica cosa adesso, la recitazione. Attualemnte ho una capacità di concentrazione di 6 mesi, che, osservando l’esempio di Bob, vorrei ampliare.

R.R.: Secondo me sei un professionista molto bravo!

L’idea della violenza come opzione è espressa in modo chiaro nel film. La sua opinione sulla violenza?

R.R.: Nel film la violenza è stata un’opzione usata per sollevare un punto che altrimenti non lo sarebbe stato. L’idea è che la violenza sia la soluzione a cui ricorrere in ultima istanza, ma per questo le persone che la esercitano devono rinunciare alla loro identità e libertà. Vivendo sempre sotto falsa identità, sorge poi un dolore, dovuto al fatto che quelle persone devono affrontare la realtà in un secondo momento.