Festival
Venezia 70: Premio Persol 2013 al regista polacco Andrzej Wajda
La Biennale di Venezia e Persol annunciano che è stato attribuito al grande regista e sceneggiatore polacco Andrzej Wajda il premio Persol 2013 della Mostra Internazionale d?Arte Cinematografica, che intende celebrare una leggenda del cinema internazionale.
Il Direttore della Mostra, Alberto Barbera, a proposito di questo riconoscimento ha dichiarato: “Wajda non è soltanto il cineasta più rappresentativo del cinema polacco del dopoguerra. E’ il regista che con la sua opera (oltre 50 film in poco più di 60 anni di attività), ha saputo porsi gli interrogativi più importanti e decisivi in merito alla storia del suo Paese e, di riflesso, dell’Europa intera, invitando a riflettere sui rapporti decisivi fra le vicende singole e quelle di un?intera nazione, fra l’angoscia che spesso caratterizza i destini individuali e il peso del compito collettivo a cui questi vengono chiamati“. Fabio d’Angelantonio, Chief Marketing Officer di Luxottica Group, ha dichiarato: “Siamo orgogliosi di continuare la nostra felice collaborazione con la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. Lo stile Persol è costituito da valori della tradizione più autentica dell?arte del fatto a mano e questo rende Persol un riferimento insuperato negli accessori di prestigio. Venezia è per noi la sede ideale per celebrare nella cornice perfetta il talento cinematografico che meglio esprime lo stile Persol”.
La consegna del premio Persol ad Andrzej Wajda avrà luogo alla 70. Mostra di Venezia giovedì 5 settembre alle 21.45 in Sala Grande(Palazzo del Cinema). A seguire, sarà presentato Fuori concorso il suo nuovo film Wa??sa. Czlowiek z nadziei (Walesa. Man of Hope), omaggio a Lech Wa??sa, uno dei protagonisti della storia della nuova Polonia. Persol è per il nono anno sponsor della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Andrzej Wajda ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera della Mostra di Venezia nel 1998, e l’Oscar alla carriera nel 2000. Nel 1981 ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes con L’uomo di ferro, in cui Lech Wa”sa, leader di Solidarno, compariva nei panni di se stesso, contribuendo a caratterizzare Wajda come regista del cambiamento in Polonia. A Venezia nel 1958 Wajda presentò uno dei suoi primi capolavori, Popiól i diament (Cenere e diamanti), sulla crisi e la ribellione di una generazione di giovani polacchi ?bruciati? dalla guerra, film che allora lo consacrò esponente di punta della Nouvelle vague del suo Paese. Wajda è uno dei maestri (Polanski, Kieslowski, Skolimovski, Zanussi gli altri), che fra gli anni ’50 e ’70 si sono formati presso la celebre Scuola di cinema di Lodz.
Quattro film di Andrzej Wajda sono stati nominati all?Oscar come miglior film straniero: La terra della grande promessa (1975), Le signorine di Wilko (1979), L’uomo di ferro (1981) e Katy (2007). Un anno dopo il diploma alla Scuola di Lodz, nel 1955, Wajda diresse Generazione, sulla Resistenza polacca. Due anni dopo girò il suo primo successo internazionale, Kanal (I dannati di Varsavia, 1957), Premio Speciale della Giuria a Cannes, ambientato durante l?insurrezione di Varsavia nel ?44, dove oppone le angosce personali dei protagonisti ai dilemmi della storia nazionale polacca. Popiól i diament (Cenere e diamanti, 1958), che vince il premio della critica internazionale alla Mostra di Venezia, è considerato un film fondamentale nella storia del cinema polacco. Con i successivi Ingenui e perversi (1960), commedia scritta da Jerzy Skolimovski, e Varsavia, Polonia (episodio del film collettivo L?amore a vent?anni, 1962), si sofferma sulle crisi giovanili del suo Paese. Il successivo Tutto è in vendita (1968), film commemorativo sul suo attore feticcio Zbigniew Cybulski, morto in un incidente, diventa uno dei suoi film più personali. Torna a trattare il tema della guerra in Paesaggio dopo la battaglia (1970), di ispirazione letteraria così come Il bosco di betulle (1971), dove denota un nuovo interesse verso un cinema dell?interiorità. Con La terra della grande promessa vince nel 1975 il primo premio al Festival di Mosca. Con L’uomo di marmo (1977), Direttore d?orchestra (1980, con Jogn Gielgud) e L’uomo di ferro (1981), si rivolge alla Polonia contemporanea confezionando grandi metafore del potere politico. Temi che in Danton (1982), con Gérard Depardieu, tratta sotto il filtro della storia e della Rivoluzione francese. Fra Dostoevskij e I demoni (1988) e La signorina nessuno (1996), dirige Dottor Korczak (1990), ambientato nel ghetto di Varsavia durante l?occupazione nazista, che anticipa lo Schindler’s List di Spielberg. Nel 2006 Wajda riceve l’Orso d’oro alla carriera del Festival di Berlino. Nel 2007 realizza Katy. Nel film, che vince il Golden Globe e viene nominato all’Oscar come miglior film straniero, Wajda (il cui padre Jakub fu una delle vittime) narra la vicenda del massacro di 22.000 ufficiali e soldati polacchi, trucidati nella foresta di Katy nel 1940 per ordine di Stalin.
Festival
Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta
Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.
Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).
A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.
Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.
Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.
Joker: Folie à deux, un musical a metà
Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.
Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?
La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.
Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).
Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.
Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.
Festival
Venezia 81 | Horizon: Capitolo 2, prosegue l’epica e ambiziosa saga di Kevin Costner
Il secondo capitolo della “American saga” ideata, diretta e prodotta da Kevin Costner prosegue le tante storie aperte nel primo capitolo. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
È finalmente chiaro, con il secondo capitolo di questa “American saga”, in cui cominciano ad avere una direzione più precisa molte delle traiettorie tracciate nel primo, che l’epopea western di Kevin Costner è fatta soprattutto di attese, di informazioni e accadimenti dosati in tempi lunghissimi, di personaggi che vengono solamente annunciati, declinati al futuro in un racconto che nessuno sa mai se effettivamente arriverà al punto di farceli conoscere davvero, in maniera approfondita ed esaustiva.
Ci sono infatti luoghi e situazioni destinati all’oscurità, a cominciare dalla stessa Horizon del titolo, città che rimane ancora un miraggio, anche per lo spettatore. Un vicolo cieco, una chimera pubblicizzata da un volantino che la evoca con tragica ironia.
Ci sono linee della narrazione che necessitano di essere ricomposte e altre che vengono drasticamente interrotte (quella dei cacciatori di taglie di Jeff Fahey, così come quella del tenente Sam Worthington). È un teatro di fantasmi quello di Costner e non è un caso che questo secondo episodio si apra con le immagini dell’uomo da cui dipende tutta la saga, quello che ha spalancato il sogno di una nuova città da costruire dal nulla, ovvero il mister Pickering di Giovanni Ribisi.
Lo vediamo nell’incipit e poi lo ritroviamo nell’ultima scena, come anticipazione del prossimo capitolo, come uno spettro che trascina con sé oscuri presagi. Simbolo dell’arroganza del capitale o sfacciato genio che gioca con il destino degli uomini?
È una delle tante domande che rimangono inevase anche in questo nuovo film, interessato specialmente a indagare i meccanismi che regolano la vita in comunità e le relazioni del singolo con il gruppo. Chiaramente – e non è una sorpresa per chi ha visto il primo capitolo – lo fa con logiche che sono quelle del cinema più classico (più vecchio, anche, potremmo dire), con quei codici morali ormai totalmente superati e con quella concezione un po’ riduttiva delle minoranze e della femminilità.
Horizon | il secondo capitolo del sogno di Costner
Quello che veramente sta a cuore a Kevin Costner è raccontare lo spazio, la vastità di un continente che è ostile innanzitutto per le sue dimensioni, in cui anche semplicemente attraversarlo diventa un’avventura angosciante, straziante, faticosa.
Nulla in Horizon è piacevole o di sollievo: non lo sono i paesaggi, con cui i protagonisti hanno invece una relazione problematica, e non lo sono le altre persone, a cui spesso si è legati esclusivamente da ragioni utilitaristiche. E anche quando c’è di mezzo l’amore, l’affetto, questo è innanzitutto una limitazione, qualcosa nel nome del quale bisogna fare dei sacrifici dolorosi.
Un freno che la realtà pone alle proprie ambizioni e non uno strumento di liberazione ed emancipazione. Non c’è nessuna legge di giustizia in queste distesa di terra, ma solo la legge della convenienza, la necessità di calcolare cosa è meglio fare e con chi è meglio legare per avere più possibilità di sopravvivenza.
“Giusto” e “sbagliato” sono concetti che nascono con l’organizzazione sociale, con la sedentarietà, e che non esistono ancora quando ci si muove in carovana. L’etica, la morale, è volubile come il cielo che sovrasta i carri di questi pionieri ed è qualcosa di cui si può discutere solamente quando ci si è “sistemati”, quando si ha un tetto sopra la propria testa e una minima sicurezza del proprio futuro.
È quindi ancora più chiaro in questo secondo capitolo che a Costner non servono troppi “villain”, nemici da affrontare a colpi di pistola, perché ogni cosa è già una lotta: la convivenza forzata con degli sconosciuti, il viaggio in territori ignoti che non sono ancora stati plasmati dall’uomo per risultare accoglienti, abitabili. Rimane però, ancora più intensa, dopo la conclusione di questo secondo capitolo, la sensazione di trovarsi davanti a un progetto più adatto alla televisione che al cinema.
E in qualche modo Costner, che questo Horizon lo ha sempre immaginato come un’epopea cinematografica, pensata per il buio della sala, gioca ironicamente su questa aspettativa tradita, alimentando la bulimia del pubblico sempre più ben disposto verso la serialità, con un trailer di “ciò che verrà” nei prossimi episodi che, esattamente come accadeva alla fine del primo capitolo, promette sempre di più di quello che si è già visto, rimanda l’azione e la spettacolarità a un secondo momento. Come a dire: avrete quello che volete.
Gli inseguimenti, gli assalti, i duelli, le sparatorie. Ma anche questa, forse, come il volantino di Horizon, sembra una promessa destinata a rimanere tale, una pubblicità ironicamente ingannevole nei confronti di un pubblico che – il risultato al botteghino lo dimostra – chiede altro. Un gioco di rimandi anche con la serie tv (Yellowstone) che lo ha fatto tornare popolare e che ha abbondato per dedicarsi al Cinema con la “C” maiuscola. Che assomiglia sempre di più ad altro.
Festival
Venezia 81: Takeshi Kitano fa ridere il festival con il nuovo Broken Rage
Takeshi Kitano torna a riflettere sul cinema e su sé stesso con Broken Rage, divertissement teorico che annulla definitivamente la separazione tra Kitano regista, autore, comico e performer.
Il nuovo Broken Rage di Takeshi Kitano è una lezione di poco più di un’ora su come violenza e umorismo possano essere linguaggi che seguono la stessa grammatica cinematografica e sul modo in cui una stessa storia possa essere raccontata con i codici del primo o del secondo. Due film in uno: uno yakuza movie appena abbozzato, senile, di una semplicità e rapidità che sembrano quelle dell’ultimo Eastwood, e poi quello stesso film parodiato, riproposto quasi frame-by-frame ma in chiave comica.
Uno specchio che rivela cosa serve (e cosa no) per far funzionare il dramma e la commedia. A cosa si può rinunciare e cosa invece necessariamente deve essere lì affinché il meccanismo narrativo giri senza incepparsi. Quale caratterizzazione debba avere il protagonista quando lo caliamo in contesti differenti: carismatico anti-eroe se si vuole raccontare una storia di redenzione o, nel caso della commedia, eterno sconfitto con cui empatizzare, gangster per sua natura “fantozziano”, tapino costretto ad obbedire al padrone di turno, di cui è un miserabile e ridicolo sottoposto.
Un film che, in ogni caso, sintetizza una carriera che dalla metà in poi si è fatta parodia consapevole di sé stessa e ha accettato la comicità come elemento insostituibile, anche quando si raccontano storie che non la prevederebbero (si pensi al recente Kubi).
D’altronde anche nella prima metà di Broken Rage, che teoricamente dovrebbe essere quella più “seria” – la storia che lo spettatore deve conoscere per poi comprendere la relativa parodia – è impossibile, in alcuni casi, trattenere la risata, a dimostrazione di una irrisolvibile commistione tra i due codici, quello del dramma e della commedia, e di una maschera, quella di Kitano, che oramai è impossibile associare esclusivamente all’autore di Hana-Bi, Sonatine, Violent Cop, senza considerare il mattatore televisivo, lo showman compiaciuto anche del suo ruolo di giullare.
Broken Rage | il ritorno del Kitano comico
Con una messa in scena ridotta ai minimi termini, Kitano elimina tutto ciò che non è gag e mette a nudo il gesto comico, che, come ci ha spiegato lungo tutta la sua filmografia, non è così differente dal gesto violento. Entrambi, infatti, nascono dalla volontà di imporre qualcosa su qualcuno: il proprio potere, il proprio dominio, sia attraverso l’afflizione di dolore fisico sul corpo altrui, sia attraverso “forzature” e stratagemmi di coercizione (narrativa, per lo meno) che inducono la risata quasi istantaneamente, come meccanismo di reazione psico-fisico impossibile da controllare e da tenere a bada.
Nei due casi, quindi, si tratta sempre di una manipolazione, di una prepotenza che ha effetti spesso molto simili: lo shock, lo spaesamento, la confusione. Violenza e umorismo funzionano meglio quando inaspettati, ingiustificati, come manifestazioni parossistiche che colgono alla sprovvista.
Deliberatamente Kitano, specialmente nella seconda metà, quella comica, si disinteressa della coerenza logica e della coerenza cinematografica, esibendo, senza nasconderli, “errori” di montaggio, concedendosi soluzioni narrative talmente sciatte e sbrigative che in altri film non sarebbero accettabili e che qui invece – e la cosa viene subito fatta comprendere allo spettatore – risultano tollerabili perché tutto è sacrificato sull’altare della gag, dell’umorismo come obiettivo ultimo a cui tendere.
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