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Venezia 79 | The Banshees of Inisherin è un capolavoro di ironia e intelligenza
4 Punteggio
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Il termine inglese “nice”, nella sua evoluzione etimologica, non ha sempre significato la stessa cosa e non è sempre stato connotato da un’accezione positiva (quella di piacevole, cordiale, bello). Nel suo senso originale, infatti, era utilizzato come termine negativo di derivazione latina (da nescius, che voleva dire “inconsapevole, ignorante”), per poi essere ripreso con uguale valenza spregiativa nel francese del 1300 per indicare una persona “stupida o sciocca”. Ed è probabilmente a questo significato che si rifà il personaggio di Brendan Gleeson in The Banshees of Inisherin, silenzioso e taciturno suonatore di violino che improvvisamente decide che il suo migliore amico (Colin Farrell) non è più meritevole della sua compagnia proprio a causa della sua ostentata “niceness”, che non tollera più.

Quel suo atteggiamento sorridente nei confronti del resto del mondo (persino passeggiando in un camposanto non riesce ad indossare un’espressione accigliata), quel suo desiderio di conversazioni frivole sul tempo o sui contenuti dello sterco dei propri animali. Questa unilaterale e apparentemente inspiegabile interruzione della loro amicizia manda in crisi Pádraic, allevatore sempliciotto e affabile, che si trova improvvisamente a percepire su di sé tutta la solitudine di una minuscola isola irlandese in cui il presente (la guerra) e il resto del mondo non sono altro che un rumore di fondo, una nuvola di fumo nel cielo da guardare sospirando.

Venezia 79 | The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh

The Banshees of Inisherin è l’ideale conclusione di quella trilogia (con The Cripple of Inishmaan e The Lieutenant of Inishmore)che McDonagh aveva inizialmente pensato per il palcoscenico teatrale. Ambientando la narrazione sulle isole Aran, già oggetto nel 1934 del documentario Man of Aran (diretto da uno statunitense, uno di quei film che ha profondamente influenzato la messa in scena dell’Irlanda durante la seconda metà del ventesimo secolo), si ha la possibilità di criticare direttamente tutte quelle forme di rappresentazione che rivendicano l’autenticità (come lo stesso film di Robert J. Flaherty), rimarcando il valore della finzione e la consapevolezza che il gioco di fantasia spesso può essere più vicino alla verità rispetto ad altre forme di espressione culturale come il giornalismo, la storiografia o l’antropologia.

Ma se quel documento degli anni Trenta trasmetteva (nella descrizione della relazione padre-figlio) la sensazione che quello stile di vita, quelle tradizioni isolane e quei costumi sarebbero sopravvissuti per sempre e tramandati di generazione in generazione, quello di The Banshees of Inisherin è un microcosmo senza bambini e senza futuro. E se in Man of Aran il nemico principale degli abitanti dell’isola era la natura, con le sue burrascose intemperie, nel film di McDonagh sono gli esseri umani ad essere il principale problema per la loro tranquillità e per il proprio benessere. Come per In Bruges, anche in questo caso il luogo in cui si svolge il racconto è allo stesso tempo suggestivo e noioso, affascinante e monotono. 

Una poetica degli scemi

Mutuando una delle idee principali della drammaturgia di Harold Pinter, il linguaggio vacuo e quotidiano utilizzato dai personaggi del film contiene una violenza latente, il desiderio soppresso di fare del male a qualcuno (o di farsi del male) appena si presenta l’occasione. È attraverso le parole, e soprattutto attraverso la loro continua reiterazione, che McDonagh costruisce la tensione (come avviene in un infuocato alterco condotto con un vocabolario limitato e giocato tutto su due sole parole: nice e dull). Una tensione che però non raggiunge mai immediatamente il proprio culmine, ma trova uno sbocco (generalmente violento) con ritardo. Le conseguenze delle azioni dei personaggi si rendono evidenti solo dopo ore dagli eventi che le hanno originate e la foga cieca e impulsiva che muove Pádraic e Colm rivela un’impreparazione a pensare in un orizzonte temporale futuro più lungo di un paio di giorni.

Anche chi si dice desideroso di lavorare affinché qualcosa di lui arrivi alle generazioni successive, inevitabilmente finisce per radere al suono nel presente tutte le possibilità che potrebbero permettergli davvero di raggiungere quell’obiettivo. La sfida, tutta maschile, tra i due protagonisti del film è segnata fin dall’inizio dalla sconfitta di entrambi i contendenti. Colm, il cui rifiuto dell’amico innesca la narrazione, come tutti su quell’isola è ignorante. E quando cercherà maldestramente di elevarsi ad intellettuale (vivere per “comporre e pensare”, dice), si dovrà confrontare con la propria inadeguatezza (sarà una donna a correggerlo sul periodo di attività musicale di Beethoven).

Come sempre nel cinema di McDonagh, d’altronde, tutto ruota attorno a personaggi stupidi che gestiscono il proprio mondo interiore senza capire bene ciò che accade fuori. Uomini che sono guardati con aria di superiorità e compatimento persino dal loro bestiame o dai loro animali domestici (che, come da tradizione nei testi dell’autore irlandese, sono sempre considerati migliori rispetto agli esseri umani, spesso persino psicologicamente più sfaccettati, come avveniva per i gatti di The Lieutenant of Inishmore)

Una mitologia stanca e consumata

The Banshees of Inisherin è però, tra le altre cose, un film che prende in giro la propensione irlandese alla creazione di una mitologia sul proprio Paese, nella fideistica convinzione che questo debba essere necessariamente un luogo amichevole che il resto del mondo possa trovare desiderabile e romantico. Inisherin è un posto in cui la mitologia si è ormai estinta e consumata. È come il set di un film al termine delle riprese o un palcoscenico teatrale dopo l’ultima replica, quando è stato smontato tutto.

Non ci sono più fantasmi su quell’isola e persino l’ultima banshee è ormai andata in pensione. Non si deve più nascondere come il suo ruolo in passato imponeva, per farsi vedere solo da chi stava giungendo al termine della sua esistenza terrena, ma si muove tra gli esseri umani, va a fare la spesa accanto a loro, come un ammonimento deambulante, un presagio che ormai non riguarda più tanto i singoli individui, ma una intera comunità di persone. Ed è forse inevitabile che un film come questo, che si svolge quando tutto è già finito, si chiuda con un finale anticlimatico, così programmaticamente insoddisfacente e incompiuto. 

Festival

Berlinale 73: Inside, la recensione | Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

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Inside film recensione

La recensione di Inside – Foto: Newscinema.it

Presentato al 73° Festival di Berlino, Inside conta 105’ di durata e fa parte della sezione Panorama.

Regia e soggetto sono a cura di Vasilis Katsoupis mentre la sceneggiatura di Inside è firmata da Ben Hopkins. Il protagonista assoluto di questo thriller dalle sfumature comedy-drama è Willem Dafoe e verrà distribuito nelle sale statunitensi il 10 marzo 2023, attendiamo la conferma italiana.

La trama di Inside

Il ladro d’arte Nemo rimane intrappolato in un attico a Times Square durante un furto che finisce male. Con il passare dei giorni il suo stato mentale comincia a peggiorare e dovendo combattere con la fame e la sete, dovrà escogitare un piano per trovare una via di fuga, per restare lucido e per adattarsi alle disagianti condizioni, ormai inevitabili.

Il one man show di Willem Dafoe

Ci sono film che abbracciano il proprio protagonista cucendogli addosso un ruolo perfetto e imbastendo intorno a lui un ambiente congeniale che punta al risultato sperato. Mai come in questo caso la definizione può essere più appropriata, questo film è Willem Dafoe.

Un uomo imprigionato senza via di fuga che dopo averle provate tutte inizia a testare i propri limiti, finendo per immaginare soluzioni e fantasticare tra folli visioni. Il ladro lo sappiamo, è una figura negativa che solitamente dovremmo identificare come antagonista ma che qui trova un risvolto opposto.

Nemo è un uomo che non avverti mai come ostile, ti trovi ad empatizzare totalmente con lui e quasi ti dimentichi che si meriti di essere imprigionato lì e magari anche scoperto, in quanto giunto in quella situazione per qualcosa che sostanzialmente non andava fatto.

Willem Dafoe Inside

Willem Dafoe in Inside – Foto: Berlinale 73

Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

Freddo glaciale o caldo torrido, mancanza di una fonte d’acqua, istinto di sopravvivenza e di adattamento, di certo quello che a prima vista pare essere un attico pieno di comfort, diventa in un attimo un ambiente avverso dove la tecnologia, da cui ormai dipendiamo, da utile si fa nemica.

Questa interessantissima opera filmica è capace di diversificare la propria direzione, partendo da qualcosa di inizialmente molto concreto e arrivando a compiere un viaggio più concettuale. Già capace di affascinare al suo primo lungometraggio dunque, il regista greco pare avere le idee ben chiare sulla direzione verso cui portare il proprio cinema.

Un po’ come il connazionale Yorgos Lanthimos, percorre una strada che parte dal realismo e finisce nella criptica isola del sottotesto ermetico, quello in cui è necessario un lavoro mentale da parte dello spettatore per essere elaborato al meglio.

Inno all’arte

L’arte e la sua realizzazione, l’inventiva, la ricerca di soluzioni che stimolano la creatività sfociando in qualcosa di ricercato, di contemporaneo, di artisticamente riflessivo. Muffa, sudore, rabbia, rassegnazione, tanti sono gli elementi simbolici o le sensazioni percepite, che portano ad un unica domanda: fin dove si può spingere un uomo?

Un essere umano in trappola, messo a dura prova dalla situazione che involontariamente si trova a vivere, sopraffatto dal proprio istinto, troverà il modo di far pace con sé stesso e con l’ambiente circostante in un equilibrio quasi spirituale. Molto silenzioso Dafoe gioca con sé stesso, recita per sottrazione, talvolta interagendo soltanto con la mimica facciale, altre con gli oggetti presenti in scena o qua e là parlando un divertente italiano.

Inside film 2023

Inside film – Foto: Newscinema.it

Non mancano infatti passaggi simpatici, dalla Macarena agli easter egg brillanti disseminati in ogni dove, che grazie ad un ottimo lavoro di montaggio esaltano ancor di più il ritmo e il talento dell’attore, chiamato a reggere sulle proprie spalle l’intero lungometraggio.

In conclusione ci troviamo immersi in un mondo nascosto tra condizioni critiche poco rassicuranti e ostacoli decisamente ingombranti, che pulsa però quasi inconsapevolmente di innata genialità artistica e si fa metafora di quello che Nemo sta pian piano realizzando, come fosse un inception di strutture a matrioska. Un inno all’arte dunque, alle menti creative e al prepotente ma essenziale concetto “Non c’è creazione senza distruzione”.

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Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name

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Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name


3.6
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Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Suzume, il nuovo film d’animazione del regista di Your Name si rivela un’opera avvincente, intrigante e sorprendente, presentata in concorso alla 73esima edizione della Berlinale.

È stato presentato a Berlino il nuovo film d’animazione del regista giapponese Makoto Shinkai, che nel 2016, con Your Name, aveva commosso milioni di spettatori in tutto il mondo, fino a guadagnarsi la stima che si riserva ai nuovi maestri e, in alcuni casi, persino lusinghieri paragoni con Hayao Miyazaki.

Il suo nuovo Suzume è un’opera avvincente, intrigante, sconcertante: un film catastrofico sci-fi spettacolare che si fa saggio sulla natura e la politica, attraversato da elementi comici folli e stravaganti che in alcuni momenti ne deviano la narrazione e ne cambiano drasticamente il tono.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Già in Your Name, il regista aveva inventato un disastro – un enorme impatto meteorico – quasi sicuramente ispirato al terremoto del Tōhoku del 2011. Con Suzume, adesso, fa esplicito riferimento alle scosse e allo tsunami del 3/11 nel prologo del film, quando la protagonista si ritrova in quella che sembra ESSERE una dimensione parallela in cui regna una devastazione surreale, con case ridotte in macerie e barche spettrali incagliate dopo misteriosi naufragi.

Il resto del film si svolge circa un decennio dopo, a partire da Kyushu (purtroppo, isola che è stata colpita da un terremoto di magnitudo 5,6 appena sei settimane prima dell’uscita del film, dando ulteriore rilevanza e attualità al suo messaggio). Una mattina, in sella alla sua bicicletta, Suzume incrocia un bel giovane che cammina nella direzione opposta, e con uno stratagemma visivo preso in prestito dal cinema live action, il tempo rallenta e la regia cattura la scintilla che scatta romantica tra loro.

Lo straniero si chiama Souta Manakata e si presenta a Suzume come un “Closer”, ovvero qualcuno incaricato di chiudere una serie di portali mistici per evitare che gigantesche creatura fuggano attraverso essi e continuino a causare disastri in tutto il Paese (vermi in computer grafica che rivelano la loro pericolosità e la loro alterità anche come corpi estranei rispetto al gentile tratto bidimensionale del film). Souta, però, all’inizio del viaggio si trasforma in una sedia per bambini a tre gambe: un’idea stravagante per un compagno di viaggio che si rivela però sorprendentemente efficace.

Il film, infatti, riesce a rendere Souta molto più espressivo nella sua semplice forma geometrica di sedia rispetto a quando, da ragazzo in carne ed ossa, non può che essere il generico oggetto d’amore della protagonista. E anche in questo rifiuto di un sentimentalismo molto vecchio e abusato sta la modernità del film di Shinkai, che stavolta decide di dare un tocco contemporaneo e giovanile al suo film collaborando nuovamente con la rock band Radwimps, affiancata qui dalla strumentazione del compositore Kazuma Jinnouchi, e incorporando nella narrazione la tecnologia moderna e l’utilizzo dei social network. Lo stesso design del gatto Daijin quasi certamente ricorderà ai fan più giovani quello cattivo dello show Puella Magi Madoka Magica.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Strutturato come un road movie, Suzume invita il pubblico ad un tour del Giappone, sorvolando sui punti di riferimento familiari, come il Monte Fuji, e concentrandosi invece sui luoghi che rappresentano il patrimonio in via di estinzione del Paese del Sol Levante. Ma è la direzione dell’animazione di Kenichi Tsuchiya, che si impone con i suoi dettagli sbalorditivi, che rendono Suzume un oggetto di misteriosa bellezza nei suoi cieli notturni e negli skyline pittorici delle diverse città. La protagonista entra in connessione con il pubblico come un’adolescente in movimento e in subbuglio, comandando il percorso emotivo della narrazione.

“Il peso dei sentimenti delle persone è ciò che soffoca la Terra”, dice Souta nel film: ed è questo il manifesto di Shinkai su come la vita interiore e la topografia giapponese siano strettamente dipendenti l’una dall’altra. E proprio come nel film The Garden of Words, in cui aveva già spiegato la sua tesi emotiva attraverso la poesia Man’yōshū, Suzume è uno sforzo che cerca di restituire la complessità di un mondo interiore con umorismo e pathos, legandolo alle sorti della Terra, del mondo che sta fuori.

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Festival

Berlinale 73 | Infinity Pool, Mia Goth: “Non mi sottraggo mai davanti a questo tipo di film”

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Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Mia Goth e Alexander Skarsgard hanno rivelato di essersi divertiti molto a realizzare Infinity Pool, il thriller “provocatorio” e “viscerale” del regista canadese Brandon Cronenberg, presentato in anteprima europea alla 73esima Berlinale.

È stato presentato in anteprima europea alla 73esima edizione della Berlinale l’atteso Infinity Pool, nuovo controverso thriller diretto da Brandon Cronenberg. Il regista ne ha parlato insieme ai protagonisti Mia Goth e Alexander Skarsgard in una conferenza stampa con i giornalisti, approfondendo le tematiche del film e affrontando le controversie legate ad esso.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

L’attrice britannica, oggi famosa specialmente per essere protagonista e co-creatrice della trilogia horror di Ti West cominciata con X – A Sexy Horror Story, ha detto di aver apprezzato molto l’aspetto “provocatorio” del suo personaggio. “Non mi sottraggo mai a questo tipo di materiale e a questo tipo di film”, ha detto ai giornalisti.

“Trovo che all’interno di questo tipo di storie ci siano personaggi davvero impegnativi che mi permettono di esplorare sfaccettature di me stessa che non mi sento molto a mio agio a rivelare al di fuori di un set. Gabi è un personaggio molto vario e dinamico. All’inizio è una donna piuttosto dolce e senza pretese e alla fine del film la vediamo invece completamente selvaggia e scardinata, solo primordiale”, ha spiegato Goth.

Il personaggio di Skarsgard, invece, è uno scrittore in difficoltà, burattino di un gioco perverso e pericoloso. “Si capisce già nel suo primo incontro con Gabi che non gli ci vuole molto per seguirla come un cane affamato”, ha affermato l’attore. “È stato abbastanza divertente giocarci con quanto fosse credulone e quanto fosse facile manipolarlo. Volevo uscire dalla mia testa… buttarmi lì dentro, in questo mondo, e vedere cosa sarebbe successo. È un film così viscerale, in cui succedono tante cose”.

I due personaggi, però, sono uno lo specchio dell’altro, come suggerito da Goth. “Penso che Gabi possa ritrovare molto di se stessa in James. Ed è anche per via di questo riconoscimento che le è così facile rivoltarlo come un calzino. Perché hanno lo stesso background culturale, lo stesso status sociale e, cosa più importante, hanno entrambi una vita di insuccessi e di fallimenti. Hanno modi diversi di affrontare questa condizione, ma da dentro penso siano molto più simili di quanto sembri”, ha spiegato l’attrice.

Berlinale 73 | Brandon Cronenberg:“Un prossimo film tratto da Ballard”

Il film è in parte ispirato, per ammissione dello stesso regista, al romanzo di Super-Cannes di J. G. Ballard, pur non trattandosi di una vera e propria trasposizione fedele o ufficiale. “Adoro Ballard e in passato ho pensato spesso di adattare il suo libro per il cinema, ancora prima di realizzare Infinity Pool.

Quindi sicuramente c’è un po’ di questa influenza nel film. Non è la stessa cosa, ma sicuramente il mood è quello. Siamo attualmente in fase di trattativa con chi detiene i diritti di Super-Cannes per riuscire a realizzare un adattamento cinematografico nel prossimo futuro. Mi piacerebbe molto farlo”, ha annunciato il regista.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Di Infinity Pool si è parlato, e si continuerà a parlare, specialmente per le sue scene più esplicite e disturbanti. “Non trovo particolarmente utile avere degli intimacy coordinators (figure che garantiscono il benessere di attori e attrici che partecipano a scene di sesso o ad altre scene intime in un film) sul set”, ha dichiarato Mia Goth.

“E probabilmente questo è dovuto al fatto che ho sempre lavorato con registi fantastici: sensibili, gentili e professionali. Come appunto Brandon Cronenberg. Spesso è meglio girare la scena senza perdere troppo tempo a discutere di cosa si può o non si può fare. È una situazione che crea più imbarazzo che altro. Se c’è fiducia tra gli attori e con il regista, basta quello”.

Cronenberg ha poi scherzato sulle notizie apparse sui giornali relative a degli spettatori, nelle diverse presentazioni del film in giro per il mondo, che hanno abbandonato la sala dopo essersi sentiti male davanti alle scene più disturbanti: “In realtà, poche persone hanno lasciato la sala durante queste proiezioni. Devo dire che siamo un po’ delusi. Forse non abbiamo fatto un buon lavoro. Quando abbiamo mostrato il film ai nostri amici, pochissimi hanno riso davanti all’umorismo molto perverso della storia. E pensavamo di essere spacciati. Invece il pubblico sembra averlo compreso”.

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