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Il ritorno al cinema del film che ci ha tolto ogni certezza

Il film più sperimentale di Lars von Trier torna in sala il 2, 3 e 4 giugno in versione restaurata. Il thriller d’avanguardia che, nel 2003, scosse il pubblico e la critica cinematografica, segnando uno dei momenti più audaci della carriera del controverso cineasta danese.

È impossibile non rimanere incuriositi, sorpresi, davanti all’inizio di Dogville di Lars von Trier: un’inquadratura che adotta il punto di vista del cielo (del mondo), del soffitto (di uno studio), mostrando dall’alto una piccola cittadina americana ricostruita e miniaturizzata. O meglio l’idea, lo scheletro, di una piccola cittadina americana, dal momento che ogni casa, ogni strada, ogni giardino, ogni elemento del set è ridotto alla sua dimensione geometrica e nominale.

La scenografia è quindi appiattita nelle due dimensioni, lunghezza e larghezza, e non si sviluppa praticamente quasi mai né in altezza né in profondità, ad eccezione di un tratto di muro, di un pezzo di campanile o di qualche elemento architettonico sparso qua e là. Così, quando un personaggio entra in una casa, fa il gesto di aprire la porta nel vuoto (ma la porta non c’è), e lo spettatore sente solo il suono della porta che si apre, scricchiola e sbatte quando si richiude. Insomma, l’ambientazione, la città di Dogville, esiste solo attraverso il suono, in qualche cambiamento di luce e nell’immaginazione del pubblico.

Paul Bettany Dogville
Paul Bettany in Dogville (Foto: Ufficio stampa) – Newscinema.it

Dogville torna al cinema

Dopo pochi minuti, siamo completamente immersi in questo luogo, in questo capannone, in questo teatro di posa senza gente, in questo set ridotto alla sua espressione più semplice ed elementare. Dimentichiamo il trucco del dispositivo minimale e teatrale.

Anzi, ci rendiamo conto che questo dispositivo apparentemente irrealistico è al contrario il vettore migliore della nostra libertà di spettatori e il miglior stimolo per la nostra immaginazione, poiché percepiamo Dogville, la sua planimetria, la sua essenza, ancora più chiaramente di quanto non si sarebbe potuto fare con la più costosa delle ricostruzioni scenografiche.

Questo trucco magico, che non sorprende di certo lo spettatore che ha già familiarità con i film di Straub, Rohmer o Renoir, apre mille interrogativi sulla messa in scena, sulla semplicità del cinema, sul rapporto tra cinema e teatro, tra realismo e artificio, sul potere del fuori campo, sulla necessaria collaborazione ontologica tra un creatore e uno spettatore nell’esistenza di un’opera cinematografica. Quando si atterra su questo territorio stilizzato, i costumi e gli oggetti di scena definiscono l’epoca (anni ’30), il paese (Stati Uniti) e il luogo (Dogville, appunto, cul-de-sac nelle Montagne Rocciose).

Nicole Kidman Dogville
Nicole Kidman in Dogville (Foto: Ufficio stampa) – Newscinema.it

Una volta che il contratto proposto dal cineasta è stato accettato dallo spettatore, ci si può finalmente abbandonare a una storia piena di pathos drammatico e colpi di scena, suspense e sentimento. La storia è quella terribile di Grace (una straordinaria Nicole Kidman): giovane donna perseguitata dalla malavita che trova rifugio a Dogville, dove gli abitanti e il loro capo, il giovane Tom, la nascondono illudendola di poterla proteggere, prima di sottoporla alla peggiore schiavitù.

Eroi e traditori, quindi, in un racconto brillantemente sceneggiato e divinamente recitato, che è anche politico poiché, come ogni buona tragedia, ogni buon melodramma o ogni buon western che si rispetti, si confronta con l’interesse individuale e collettivo, con la relazione interpersonale e la società, con la legge dell’amore e con la legge del branco. Dogville è una favola, una parabola: ci mostra che l’umanità non è sempre virtuosa, ma pronta invece a sprofondare nell’abiezione di fronte a circostanze estreme.

All’inizio singolari e piuttosto comprensivi, gli abitanti di questa misteriosa cittadina finiranno tutti per unirsi al campo degradante della maggioranza, quello che umilia, tradisce e cerca di approfittare della povera protagonista. E anche chi la ama si rivelerà debole, deludente.

Un film pessimista e oscuro

Il cinema di Lars von Trier va contro le finzioni consolanti, contro il lieto fine e le sciocchezze in plastica riciclabile che Hollywood ci propone (e proponeva) tutto l’anno. Tuttavia, ci si può chiedere se il pessimismo assoluto del regista non sia il negativo troppo comodo e troppo semplice delle finzioni planetarie americane, come se si volesse controbilanciare Hollywood sovraccaricando il carattere fondamentalmente abietto della natura umana.

Se non è facile credere negli eroi che salveranno il mondo (o che il mondo possa essere salvato), non è altrettanto salutare credere che tutta l’umanità sia marcia e che ci si debba rassegnare alla disperazione dell’uomo.

Tutti i personaggi di Dogville compiono un viaggio dal meglio al peggio di loro stessi e non c’è nemmeno uno di essi che vada nella direzione opposta. Un cinismo che, nelle mani di un altro cineasta, sarebbe inaccettabile, respingente, profondamente disonesto. E invece la genialità di Lars von Trier si rivela limpidamente in Dogville.

Un film che, nonostante il suo pessimismo e la sua totale mancanza di fiducia nell’uomo, sembra tutt’altro che cupo o sgradevole, grazie alla facilità del racconto (la voce del narratore è una meraviglia che ricorda quella de L’orgoglio degli Amberson), all’intelligenza attoriale, ad una regia che sceglie di sollecitare il pubblico e non di mortificarlo.

Davide Sette
Davide Sette
Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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