Julia Ducournau torna in concorso al Festival di Cannes dopo aver vinto la Palma d’oro nel 2021 con Titane. Il suo nuovo film, Alpha, ha spaccato in due il pubblico della kermesse francese, suscitando polemiche e controversie.
È un cinema di corpi, quello di Julia Ducournau. E quindi non in maniera dissimile dal precedente Titane, anche il nuovo film Alpha è innanzitutto un racconto di due corpi sofferenti che si sfiorano e si amano.
Nel primo caso i corpi erano quello della ballerina-killer-figlia di Agathe Rousselle e quello del bodybuilder-pompiere-papà di Vincent London, mentre adesso, pur rimandando nell’alveo familiare, i due corpi sono quelli di una bambina che si sospetta possa essere stata infettata da un virus che che di fatto pietrifica muscoli, organi e ossa e quello di suo zio, anch’esso potenziale vittima di questa misteriosa epidemia, ma soprattutto tossicodipendente sempre tremante, debole, costantemente sul punto di crollare.
A prendersi cura di questi due “soggetti fragili” c’è la loro mamma-sorella. Una dottoressa che non riesce ad accettare la sofferenza delle persone che ama e che, pian piano, dovrà invece imparare a lasciar andare i propri affetti, ad accettare che non sempre si può intervenire, trovare una cura al male che ci circonda.
Julia Ducournau spiazza il pubblico con Alpha
Il film quindi mette in scena la devastazione causata da due epidemie che hanno scosso la Francia nel momento in cui dispiega la sua storia, ovvero gli anni Ottanta: quella dell’eroina nelle classi popolari e nelle periferie, e quella dell’AIDS.
Riutilizzando un immaginario cinematografico ampiamente riconoscibile – i corpi emaciati dei malati, le siringhe per terra nelle trombe delle scale e i giovani completamente incoscienti sdraiati sulla soglia delle loro case – Julia Ducournau attualizza ai tempi del Covid, dei sistemi sanitari al collasso e inadatti a gestire carichi di pazienti così ingenti, una metafora che, come sempre avviene nei film su questo genere di patologie, racconta in realtà la paura degli altri, il sospetto nei confronti del diverso, lo stigma che le minoranze coinvolte si trascinano ovunque vadano.
La cosa che stupisce maggiormente di questo film ambizioso ma morigerato, che non punta allo stordimento sensoriale di Titane, soffocato forse da un’eccessiva stratificazione metaforica e da una costante vaporizzazione delle questioni narrative, è il tono assolutamente disperato (e “disperante”, per citare una frase già entrata nella storia) di tutto il racconto, l’atmosfera di morte e solitudine che si respira per tutta la sua durata e che sembra quasi nebulizzarsi nell’atmosfera, sotto forma di una polvere rossa terrigna che diventa un aerosol composto da quelle migliaia di corpi ormai sgretolati, tornati alla sostanza primigenia da cui provenivano.
La transitorietà dei corpi
Il film, non a caso, si apre con uno zoom sulla sabbia ocra su cui vengono presto impresse le lettere del titolo, che corrisponde anche al nome della sua giovane eroina (Mélissa Boros). La macchina da presa si insidia nelle crepe di questa terra calcarea per esplorarne le profondità e termina il suo percorso riaffiorando sulla superficie della pelle umana, quella di un braccio segnato da tagli e ferite, le stimmate del corpo del tossicodipendente.
Il viaggio simbolico, che va dalla terra al corpo, dalla placca terrestre all’escrescenza umana, riassume abbastanza bene il progetto e gli eccessi del gesto di Ducournau, quello di voler abbracciare tutto per poterci finalmente dire: tutto è polvere e tutto tornerà a essere polvere.
Quelli di Mélissa Boros e Golshifteh Farahani e Tahar Rahim sono corpi che si uniscono negli abbracci, così come nella danza (come in Titane), danneggiati prima dal mondo e poi da chi lo abita, animali che si annusano, si riconoscono, si avvicinano per affrontare meglio ciò che resta loro da vivere. Il corpo, ancora una volta, viene messo in scena come elemento transitorio, ma non più soggetto a continue trasformazioni, bensì a una sclerotizzazione che lo immobilizza, lo rende più facilmente erodibile.
Alpha, come già prima avevano fatto Raw e Titane, mette in scena il costante pericolo che minaccia l’integrità del corpo umano. Un pericolo che non sta più nel taglio, nello squarcio, nella lacerazione, ma nel contatto con l’altro. Ciò che penetra il corpo e lo distrugge è adesso una minaccia invisibile, che scorre nel fluido umano in cui tutti siamo immersi (come sintetizzato da una stupenda scena in piscina: la migliore del film). Stavolta, sembra dirci Julia Ducournau, la transitorietà conduce all’annullamento dell’esistenza fisica, alla smaterializzazione del corpo degli altri che diventa aria da respirare, pulviscolo da inalare.