Al centro Enzo Tortora, volto di uno dei più gravi errori giudiziari del nostro Paese. Ecco perché la sua storia ci riguarda tutti.
Con Portobello, Marco Bellocchio segna una nuova tappa nel suo percorso di rilettura critica della storia italiana. Presentata in anteprima alla Mostra del Cinema, l’opera è una coproduzione ambiziosa, a testimonianza di una vocazione internazionale.
Al centro c’è la parabola di Enzo Tortora (Fabrizio Gifuni), celebre conduttore televisivo, la cui vicenda giudiziaria negli anni Ottanta è rimasta impressa nella memoria collettiva come uno dei più gravi errori giudiziari del nostro Paese.
Un cast corale – da Lino Musella a Barbora Bobulova, passando per Romana Maggiora Vergano e Alessandro Preziosi – sostiene il racconto, guidato da una regia che non rinuncia all’intensità tipica del cinema bellocchiano. Nella cornice di Venezia, Portobello si presenta così come un’opera che intreccia memoria, spettacolo e giustizia.
Portobello: la storia di uno degli errori giudiziari più noti e controversi
Portobello racconta la caduta tragica di Enzo Tortora, simbolo della televisione italiana degli anni Ottanta. È il 1982: Tortora è al culmine della popolarità. Conduce l’eponimo Portobello, programma seguito da milioni di spettatori e diventato fenomeno di costume, tanto da valergli il titolo di commendatore della Repubblica.
Ma mentre il conduttore incarna il volto rassicurante di un’Italia che cerca leggerezza dopo anni complessi, la Nuova Camorra Organizzata vive una fase di profonda trasformazione. Il terremoto dell’Irpinia ha destabilizzato equilibri già fragili, aprendo la strada a nuovi assetti criminali.
In questo contesto, Giovanni Pandico, ex uomo di fiducia del boss Raffaele Cutolo e spettatore fedele di Portobello dalla sua cella, decide di collaborare con la giustizia. Tra i nomi che pronuncia c’è quello, inaspettato e devastante, di Enzo Tortora.
Il 17 giugno 1983 i carabinieri bussano alla sua porta: Tortora crede in un errore destinato a chiarirsi rapidamente. È invece l’inizio di un incubo che lo trascinerà dall’apice del successo alla distruzione personale e pubblica, in una vicenda che diventerà emblema delle zone oscure della giustizia italiana.

Una regia puntuale al servizio di un’opera personale e collettiva
Dell’opera complessiva composta da sei episodi, a Venezia sono stati mostrati solo i primi due: un assaggio che non permette un giudizio definitivo, ma che consente già di intravedere la direzione intrapresa da Marco Bellocchio.
La regia si conferma ponderata e rigorosa, costruita su atmosfere oscure e dense, capaci di restituire allo spettatore il senso di un meccanismo giudiziario che si chiude progressivamente intorno al protagonista. Bellocchio esplora con sapienza le zone grigie tra legalità e giustizia, senza mai cadere nella retorica o nella semplificazione.
Il cast funziona come un organismo corale: Gifuni restituisce un Tortora fragile e dignitoso, mentre attorno a lui prendono forma figure che incarnano il potere, la criminalità, il sistema mediatico.
La tensione aumenta in un crescendo che sa intrecciare il privato e il pubblico, la dimensione umana e quella politica. La fotografia di Francesco Di Giacomo e la musica di Teho Teardo amplificano l’atmosfera di cupa sospensione.
Se due episodi non bastano per una valutazione complessiva, bastano però a intuire un’opera che promette di essere al tempo stesso civile e drammatica, personale e collettiva.
Non resta che attendere gli altri capitoli per capire fino a che punto Bellocchio riuscirà a restituire la complessità di una vicenda che ha segnato la storia italiana e che, di conseguenza, ci riguarda tutti da vicino.